Come si può definire, classificare e misurare in modo efficace l’alitosi, in modo da essere nelle condizioni di effettuare una diagnosi appropriata e proporre un trattamento mirato? Due dentisti, uno turco (Murat Aydin) e l’altro inglese (Colin Harvey-Woodworth) hanno approfondito l’argomento sul British Dental Journal, proponendo una nuova classificazione. L’efficacia della proposta andrà verificata, ma sono gli stessi autori a mettere in guardia rispetto alle «variazioni interpersonali» e alle «fluttuazioni dell’alitosi che possono intercorrere da un’ora all’altra nello stesso individuo».
Come fa notare Stephen Hancocks, editore del Bdj, «questo va al cuore delle difficoltà “biologiche” di una tale misurazione, in quanto enfatizza la natura transitoria del problema; inoltre, la percezione di respiro maleodorante da parte di una persona può non essere la stessa avvertita da un altro individuo».
Tra le diverse definizioni esistenti di alitosi, Aydin e Harvey-Woodworth propongono quella di «cattivo odore con intensità superiore a un livello percepito socialmente accettabile». Come si vede, è una definizione indipendente da strumenti di misurazione ma anche da descrizioni soggettive; uno dei corollari è che l’alitosi è considerata tale se è spiacevole per il paziente o per le persone che costituiscono il suo ambiente sociale, quindi se l’odore non è percepito in modo negativo non si tratterebbe di alitosi.
Quasi sempre si tratta di una condizione cronica, anche se può essere intermittente; alcune malattie come tonsilliti o faringiti oppure certi cambiamenti metabolici o della flora orale possono causare per brevi periodi (meno di due mesi) un cattivo odore che scompare quando la condizione si risolve e in questo caso si parla di alitosi temporanea. Lo stesso può accadere a seguito dell’assunzione di certi alimenti (come aglio o cipolla) o di intossicazioni. In tutti questi casi, non sono necessari né un’ulteriore diagnosi né alcun trattamento specifico.
Quanto alla classificazione dell’alitosi, quelle esistenti non considerano in genere l’eziologia del fenomeno e legano la diagnosi a prove organolettiche o misurazioni alitometriche che, secondo gli autori, sono inaffidabili. Le prime vengono effettuate annusando separatamente l’aria emessa dalla bocca e dal naso e attribuendo poi un valore in base a una scala di valori, solitamente dall’uno al cinque. Si tratta però di una misurazione soggettiva e che non distingue tra aria della bocca e aria alveolare. Esistono poi degli strumenti che forniscono dati oggettivi; peccato però che alcuni siano troppo complessi e costosi per un utilizzo di routine mentre altri, portatili e più convenienti, riescono a rilevare solo il cattivo odore orale causato da composti sulfurei volatili (comunemente chiamati Vsc).
L’idea di Aydin e Harvey-Woodworth è che la diagnosi di alitosi si focalizzi in misura maggiore sulle dichiarazioni del paziente e delle persone che gli sono vicine e suggeriscono una nuova classificazione che copra tutte le possibili eziologie.
La proposta comprende dunque cinque tipologie: orale, originata dalle vie respiratorie; gastroesfagea; prodotta dalla circolazione sanguigna e soggettiva (è il caso in cui un soggetto se ne lamenta ma gli strumenti di misurazione non danno alcun riscontro oggettivo). In realtà, le alitosi sono spesso la somma di queste tipologie combinate in diverse maniere ed esiste un tipo zero (chiamato odore fisiologico) in cui tutte le componenti sono presenti.
Giampiero Pilat
Giornalista Italian Dental Journal