L’evoluzione fisiologica di un’estrazione dentale risulta sempre, seppur in modo variabile, in un certo grado di contrazione della cresta alveolare.
Poiché tale esito può complicare l’eventuale successiva riabilitazione (implanto) protesica, si ricorre talvolta a tecniche dette di Alveolar Ridge Preservation (ARP). I punti salienti di tali tecniche sono l’estrazione senza scollamento del lembo vestibolare minimizzando l’azione traumatica sulla corticale vestibolare e l’inserimento di sostitutivo d’osso nell’alveolo.
Il caso di seguito presentato ne vuole essere una esemplificazione.
Caso clinico
La paziente si presentava all’osservazione lamentando dolore spontaneo ed evocato, infiammazione gengivale e sensibilità a carico dell’elemento 3.5. All’ispezione, la gengiva vestibolare si presentava arrossata, distaccata dall’elemento e dislocabile mediante getto d’aria e sonda parodontale; si rilevava la presenza di un’ampia cavità. L’esame radiografico endorale completava l’iter diagnostico (figg. 1 e 2), confermando la prognosi infausta per il 3.5.
Tra le proposte riabilitative presentate, la paziente accettava quella implanto-protesica ma segnalava la sua indisponibilità a intraprendere le cure per i 4/5 mesi successivi.
Dovendo procedere comunque all’estrazione, si informava la paziente delle suddette possibili modificazioni e degli effetti sulla successiva riabilitazione così come delle possibilità di gestire le stesse. Si presentavano due alternative: attendere la guarigione spontanea ed eventualmente ricostruire i volumi ideali in fase chirurgica (I e/o II stage) o adottare una metodica di preservazione della cresta contestualmente all’estrazione dentale, avendo poi ancora la possibilità di ulteriori eventuali correzioni. Si optava per la prima soluzione.
Effettuata l’estrazione, l’ispezione dell’alveolo evidenziava come la parete vestibolare, sebbene intatta, fosse sottile (spessore < 1 mm) e quindi ad alto rischio di riassorbimento; ciò rafforzava l’indicazione al ricorso alla ARP.
Si è scelto di utilizzare un materiale alloplastico (b-TCP) a lento ma totale riassorbimento e con indurimento in situ (Guidor Easy-graft classic Sunstar). L’alveolo veniva riempito avendo cura di non compattare eccessivamente il materiale; a livello crestale il materiale, che già formava un tappo compatto, veniva protetto con spugna in fibrina e i tessuti molli accostati (figg. 3 e 4).
A sei mesi, momento dell’inserzione dell’impianto, la cresta appariva clinicamente ben preservata, così come nella radiografia la guarigione appariva completa e il materiale da innesto sostituito (fig 5). Anche in fase chirurgica e di preparazione del sito implantare non si rinveniva materiale da innesto in profondità. Risultava quindi possibile, senza ulteriori interventi ricostruttivi, l’inserimento di un impianto conico di 4 x 12 mm, nella posizione desiderata e con un torque adeguato. L’impianto veniva sommerso.
A tre mesi si procedeva alla scopertura e al posizionamento di una vite di guarigione che contribuisse a dislocare i tessuti molli in senso vestibolare (fig.6) e si procedeva alla finalizzazione del caso con corona avvitata in zirconia (figg. 7 e 8).
Concludendo, nei limiti del presente caso, la metodica descritta sembra aver contribuito a preservare i volumi tissutali a seguito di estrazione, rendendo più predicibile, semplice ed economica la riabilitazione implanto-protesica.

Marco Giargia
Libero professionista ad Albisola Superiore (SV)