La clorexidina è ad oggi ritenuta l’antisettico gold standard per il controllo della placca dentale. L’unica alternativa affidabile, ma con efficacia inferiore, sono gli oli essenziali. Intanto gli studi su biofilm e microbioma orale aprono a nuove sostanze
Anche se la clorexidina rimane l’antisettico gold standard nella terapia e nel mantenimento parodontale, si sta intravedendo l’arrivo di nuovi protocolli e approcci terapeutici che potranno portare a un cambio di paradigma, verso un approccio più mirato per contrastare i batteri coinvolti nelle malattie parodontali. È stato questo il messaggio espresso da Matteo Basso (professore a contratto di Ergonomia odontostomatologica all’Università di Milano e responsabile del Centro di riabilitazione orale minivasiva, estetica e digitale (Cromed) presso l’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano) nel webinar “Protocolli e suggerimenti pratici sull’uso di antisettici orali per la terapia e il mantenimento parodontale”, organizzato dalla European Federation of Periodontology (Efp) con il contributo non condizionante di Curasept.
Tre gruppi di collutori
Citando uno studio del 1999 pubblicato sul British Dental Journal (1), Basso ha delineato tre categorie di antisettici.
Nella prima figurano quelli così efficaci da poter prevenire la formazione di placca e da essere indicati quando non si può eseguire un’igiene meccanica, ad esempio dopo un intervento chirurgico in cui sono stati applicati punti di sutura. Ne è un esempio, appunto, la clorexidina, ma fanno parte di questo gruppo anche delmopinolo, un tensioattivo efficace solo però quando la placca non si è ancora formata, oppure il salifluor e il sodio-cloruro acidificato, due principi che non hanno trovato applicazioni cliniche reali.
Nella seconda categoria troviamo principi meno potenti nell’inibire la placca, che non sostituiscono l’igiene meccanica ma possono essere utilizzati come efficaci coadiuvanti: il cloruro di cetilpiridinio (Cpc), gli oli essenziali, i fluoruri o triclosan.
In una terza categoria vengono invece classificati i collutori con effetto scarso o nullo sull’accumulo di placca e che hanno principalmente un ruolo cosmetico: si limitano infatti a rinfrescare l’alito o non hanno mai ottenuto ampia validazione scientifica.
«Quando prescriviamo un collutorio a un paziente – ha detto Basso – dobbiamo sempre tenere presente questa suddivisione e lo scopo che vogliamo raggiungere. Le prove scientifiche disponibili suggeriscono ancora oggi che un collutorio contenente clorexidina è sempre la prima scelta se cerchiamo un’azione antiplacca, mentre scendendo di efficacia l’alternativa più affidabile è costituita dagli oli essenziali».
Focus clorexidina:a quale dosaggio?
Il dottor Basso ha osservato che, in test in vitro, la clorexidina può mostrare la stessa efficacia di altri antisettici, ma in vivo le cose cambiano perché questa sostanza ha proprietà chimiche che le consentono di persistere nel cavo orale molto più a lungo, fino a 12 ore. Tale proprietà di definisce “sostantività”.
Basso ha anche affrontato la questione del giusto dosaggio. Secondo gli studi condotti finora, i collutori con lo 0,12% e quelli con lo 0,20% di clorexidina hanno dato risultati simili in termini di controllo della gengivite, ma si è evidenziata una differenza statisticamente significativa a favore del dosaggio più forte in termini di controllo della placca. Esistono anche prodotti con dosaggi inferiori, in cui la clorexidina è spesso combinata con altri antisettici (come il Cpc), che potrebbero risultare più indicati per l’uso in terapie a lungo termine, come quelle richieste nei pazienti ortodontici.
Meno pigmentazione, più compliance
Gli effetti collaterali della clorexidina non sono generalmente pericolosi e il più comune è sicuramente l’alterazione della naturale cromia dello smalto dentale, con la formazione di macchie sui denti: oltre a essere poco piacevoli, possono compromettere la compliance dei pazienti, che dal punto di vista clinico è una questione di rilievo.
Tra i possibili meccanismi a cui si deve la colorazione dello smalto, il professore ha indicato la degradazione della clorexidina con il rilascio di paracloranilina, la degradazione delle proteine salivari, la reazione di Maillard, l’effetto di cromogeni e del cibo. Si tratta per lo più di reazioni che avvengono normalmente nel cavo orale, ma sulle quali la clorexidina determina una brusca accelerazione.
Alcuni protocolli suggeriscono l’utilizzo di un collutorio ossidante – perossiborato o perossido di idrogeno – prima dello sciacquo con clorexidina: soluzione efficace ma che complica non poco la vita al paziente che si ritrova a fare due sciacqui anziché uno. Un altro approccio prevede l’inclusione di polivinilpirrolidone (Pvp) allo 0,06% nel collutorio con la clorexidina: questo produce una significativa riduzione della colorazione dei denti, ma anche un’altrettanto significativa riduzione dell’attività antibatterica della clorexidina. Ricerche più recenti (2) hanno invece confermato la capacità di alcuni agenti antipigmentanti, come la combinazione di acido L-ascorbico e sodio metabisolfito, nel ridurre questo effetto collaterale senza alterare le proprietà fondamentali della clorexidina.
È stata affrontata anche la possibile interazione negativa tra clorexidina e sodio lauril solfato (Sls), un agente schiumogeno comune nei dentifrici: generalmente si suggerisce di associare per tutto il periodo di utilizzo di un collutorio alla clorexidina un dentifricio compatibile, possibilmente sempre alla clorexidina, per evitare l’inibizione dell’efficacia del principio attivo.
In arrivo nuove sostanze?
Matteo Basso ha concluso il suo intervento esaminando nuovi approcci al controllo dei biofilm orali, ma ha rilevato che al momento nessuna sostanza offre la stessa efficacia e gli stessi vantaggi della clorexidina, sebbene vi siano alcuni candidati promettenti emersi dalle ultime ricerche: tra questi, alcuni inibitori della proteasi, inibitori del quorum-sensing, peptidi antimicrobici e probiotici.
Oggi sappiamo molto di più su biofilm e microbioma orale: questo ci permette di avviarci verso antisettici più mirati e di muoverci verso quello che lo specialista ha indicato come il “paradigma emergente”: la patogenesi della malattia parodontale e perimplantare non è più vista come il risultato della presenza di un singolo patogeno, ma originata dall’omeostasi disturbata da un microbiota alterato, che porta all’infiammazione ed erode lentamente i tessuti parodontali. Ecco perché i riequilibratori della cosiddetta “eubiosi” o “omeostasi”, come i probiotici o i postbiotici, avranno sempre più un ruolo di primo piano nell’odontoiatria moderna.
Renato Torlaschi
Giornalista Italian Dental Journal
Bibliografia:
1. Eley BM. Br Dent J. 1999 Mar 27;186(6):286-96.
2. Van Swaaij BWM et al. Int J Dent Hyg. 2020 Feb;18(1):27-43.