
Aldo Crespi, libero professionista in Corsico (Milano), è uno degli autori di DentalAcademy
In ogni professione esistono molte sfumature con le quali misurarsi ogni giorno. Attualmente nei nostri studi, come tutti sappiamo bene, molte sono le cose di cui il professionista deve occuparsi e la documentazione clinica è certamente uno dei tanti adempimenti. Partiamo dal presupposto che impegno, aggiornamento e passione diano come risultato un’ottima qualità clinica, che resterebbe però solo dentro di noi se non venisse documentata. Non saremmo mai cresciuti professionalmente se non avessimo assistito a corsi, congressi, casi clinici risolti da colleghi esperti, pertanto è innegabile che la “documentazione fotografica e non”, rappresenti un canale di trasmissione con noi stessi per perfezionare i risultati, con il paziente per creare una complicità pratica e, naturalmente, un parametro di condivisione con gli altri colleghi.
Cercando volutamente citazioni cinematografiche, “cogli l’attimo” ben si adatta all’idea della documentazione fotografica perché è proprio da questo che vogliamo partire per documentare un case report. Sull’importanza di scattare fotografie e/o filmati per documentare il nostro lavoro, ci permettiamo di darlo per scontato viste le premesse appena descritte. L’aspetto di scambio culturale è un punto decisivo: le realtà di “studio chiuso in se stesso” ricordano un computer completamente privo di connessioni.
La qualità delle fotografie
Gli aspetti tecnici di macchine fotografiche dotate di macro e flash anulari sono ben conosciuti dai colleghi, come anche le difficoltà di fare delle belle foto in bocca ai pazienti, comprovate dai corsi di fotografia odontoiatrica. Partiamo proprio da questo: è indispensabile fare una foto perfetta?
Sì, se l’ambizione è entrare in una società scientifica, dove correttamente i protocolli sono rigorosi; no, se si tratta di comunicazione tra colleghi. In questo caso, nel normale rispetto delle linee guida, l’importante è trasmettere l’essenza di quel passaggio all’osservatore, professionista come noi, che quindi comprenderà perfettamente ogni aspetto clinico. Se poi la foto è accompagnata da una corretta ed esaustiva didascalia sarà ancora più facile.
Il confronto è didattico
Questo dovrebbe spronare anche i colleghi più giovani a non aver paura di essere giudicati e promuovere i loro casi che sono sempre e comunque degni di osservazione, rispetto per l’impegno e perdonabili se qualche dettaglio non è perfetto.
Anzi dovremmo uscire dallo schema scontato del “dimostro quanto sono bravo” per documentare la realtà clinica di ogni giorno, imprecisioni comprese, senza temere la critica del più esperto. Comprendiamo che è facile a dirsi e meno facile da mettere in pratica. Ma non esiste un altro sistema per crescere. Tutti noi, anche il più bravo, ha avuto un inizio. L’importante è comunque agire nel rispetto delle linee guida e dei protocolli che la pratica clinica e i nostri studi universitari ci hanno insegnato.
I passaggi fondamentali della documentazione sono sempre quelli che ben conosciamo: dall’anamnesi generica e specifica, quindi età, sesso, eventuali malattie sistemiche fino al dettaglio del problema che affligge il paziente: fotografie e radiografie del “prima”, del “durante” e del “poi”, con tanto di controlli a distanza che attestano la validità clinica del nostro operato.
La descrizione clinica della terapia, crediamo debba essere centrata sul problema: inutile fare voli pindarici specificando in modo maniacale ogni dettaglio. Non dimentichiamo a chi è diretta la comunicazione, descriviamo in modo sufficientemente esaustivo il problema da risolvere e come è stato risolto.
Naturalmente materiali e metodi sono importanti per comprendere com’è stata eseguita la terapia, al fine di poterla trasmettere ad altri nell’essenza della sua ripetibilità.
Non aver paura di offrire il fianco ad eventuali critiche, queste ci rinforzano quando ci rendiamo conto che sono corrette e ci confortano nella scelta quando sono sterili, quindi servono in ogni caso.
I tempi non sono indicativi di qualità o di risultato, ognuno di noi ha i propri, certo l’ambizione è la massima qualità nel minor tempo. Tutti noi ricordiamo gli inizi della professione nei quali il risultato soddisfacente richiedeva tempi molto lunghi che poi, con l’esperienza, si sono contratti e la qualità è notevolmente aumentata. È un percorso fisiologico degno di rispetto.
Pensando al passato le terapie canalari, ad esempio, richiedevano tempi piuttosto lunghi con risultati spesso non da mostra, ma se eseguite comunque con rigore scientifico, isolamento del campo, impegno nell’alesatura e chiusura tridimensionale del canale, non avevi nulla da rimproverarti. Questa è un’altra cosa fondamentale della professione.Ho sempre condiviso l’idea di molti colleghi dell’osservatore sulla spalla destra che rappresenta il tuo mentore, cosa direbbe lui che ti osserva? O come amano ricordare altri, chiedersi sempre “sono le stesse terapie che faresti ai tuoi figli?”.
Sforzarsi di agire al meglio non ti mette al riparo da possibili errori, ma serve per dormire meglio la notte, perché già il sonno può essere compromesso da molti pensieri, specie considerando la complessità della nostra professione al giorno d’oggi.
La variabile tempo
Un altro aspetto non trascurabile è quello economico: la condizione odierna è cambiata rispetto al passato, cosa di cui tutti ci siamo accorti, quindi questo richiede la messa in campo di nuovi strumenti e rinnovata energia per affrontare al meglio un momento complesso. La “risorsa” paziente va salvaguardata coinvolgendolo nelle possibili scelte terapeutiche, spiegate in modo chiaro e comprensibile, ricordandoci che questo “tempo” è sempre un investimento produttivo.
Enfatizziamolo anche nella descrizione dei case report: le strade da percorrere sono tre, ma abbiamo scelto la due in accordo con il paziente. Sappiamo che ci sono colleghi convinti che la scelta terapeutica sia solo una, ne comprendiamo l’essenza, ma come sempre bisogna adattarla ai tempi e alle condizioni di quello specifico paziente.
Lo standard delle società scientifiche
Gli standard più elevati per la presentazione di casi clinici sono quelli delle tante società scientifiche italiane, che richiedono agli aspiranti soci attivi di dimostrare le proprie capacità cliniche attraverso un’accurata documentazione di alcuni trattamenti eseguiti. Questi standard, molto dettagliati e reperibili sui siti web delle maggiori società scientifiche, rappresentano lo stato dell’arte da cui trarre lo spunto per la propria presentazione di un case report, adattandoli naturalmente all’occasione: discussione a un congresso, pubblicazione su un sito o su una rivista.
Si può condividere l’esperienza sul web
Per concludere con una visione temporale della nostra professione rispetto al passato, non dobbiamo dimenticare che molte cose sono cambiate, molto dobbiamo alla “rete”. Proprio qui infatti abbiamo scoperto che la prima notizia scientifica di comunicazione nodale tra computer risale al 1962 ad opera di Licklider & Clark (Usa) ed è stata una vera svolta per i nostri scambi culturali.
Chissà se gli scopritori avrebbero mai immaginato una tale pandemia informativa e che un giorno anche noi avremmo avuto una tale finestra di scambi culturali, che si chiami Dental Academy o Dental Community poco importa, l’importante è che esista.
Incontestabile il fatto che in questi ultimi anni lo sviluppo della rete è stato esponenziale diffondendo una nuova cultura dell’informazione anche ai pazienti che oggi vengono nei nostri studi molto più preparati che in passato, costringendoci a volte ad approfondimenti tecnici non proprio semplici.
Per quanto riguarda i colleghi crediamo molto in questo tipo di “interscambio” perché, pur senza il contatto diretto non sempre possibile, semplifica il passaggio di personali esperienze cliniche. Usiamola quindi, daremo nuovi orizzonti alla professione e stimoleremo il confronto e, certamente, le nostre giornate si arricchiranno di qualcosa in più, “perché documentare ti costringe a migliorare”.
Aldo Crespi
Odontoiatra