Evidentemente ci sarà un motivo, ma risale così alla notte dei tempi che ne abbiamo perso la memoria, pur continuando a soffrirne le conseguenze. Mi riferisco al fatto che ogni nuova incombenza, amministrativa o sanitaria che sia, ci vede inseriti sempre in prima fila come destinatari, semplicemente per il fatto di essere dentisti. Eppure i nostri studi godono ormai da tempo di caratteristiche tecniche e di sicurezza che ci vedono all’avanguardia rispetto ai colleghi di altre branche della medicina che esercitano, al par nostro, la libera professione. Ma, a quanto pare, ancora non basta.
Con una decisione improvvisa quanto inattesa la Regione Toscana ha stabilito che tutti gli studi sanitari libero professionali debbano essere in possesso di un defibrillatore.
Capisco che parlar male del defibrillatore è un po’ come sparare sulla Croce Rossa, ma sono costretto a fare alcune puntualizzazioni. Intanto mi domando: è vero o no che, prima ancora del defibrillatore, nei casi di arresto cardiaco improvviso, sono necessarie le corrette manovre di rianimazione cardio-polmonare? E allora perché tanta attenzione sull’ultimo anello della catena della sopravvivenza senza aver potenziato le conoscenze del più importante, semplice, e più economico BLS? Questi apparecchi sono veramente utili, così tanto da mettere in secondo piano le manovre ad essi precedenti? Certamente lo sono, seppure vada precisato che funzionano solo in due precise tipologie di arresto cardiaco, escludendosi tutte le numerose altre. E anche in questi casi, purtroppo, non sempre riescono a salvare la vita.
Altro fattore da tenere in considerazione è quello dei luoghi dove questi gravissimi eventi si verificano. Solo nel 5% dei casi l’arresto cardiaco si verifica sui posti di lavoro.
Il quadro normativo
Il passaggio legislativo che si è occupato di tale questione è il decreto del ministero della Salute del 18 marzo 2011 «Determinazione dei criteri e delle modalità di diffusione dei defibrillatori automatici esterni» per promuovere «la realizzazione dei programmi regionali per la diffusione e l’utilizzo di defibrillatori automatici esterni, indicando i criteri per l’individuazione dei luoghi, degli eventi, delle strutture e dei mezzi di trasporto dove deve essere garantita la disponibilità dei defibrillatori». Dopodichè, al fine di incentivarne la diffusione, il decreto dà direttive sulla collocazione di defibrillatori cosiddetti “esterni”, allocati in luoghi pubblici o aperti al pubblico, chiedendo di valutare «sulla base dell’afflusso di utenti e di dati epidemiologici, l’opportunità di dotare di defibrillatori i seguenti luoghi e strutture», soprattutto quelli in cui si pratica attività sanitaria e sociosanitaria, quali strutture sanitarie e sociosanitarie residenziali e semiresidenziali autorizzate, poliambulatori, ambulatori dei medici di medicina generale.
Le Regioni dovranno individuare «le attività per le quali il soggetto esercente è tenuto a dotarsi a proprie spese di defibrillatori». Direi che in quest’ultimo caso la potestà delle Regioni di imporre i defibrillatori si debba basare su fondamenta solide, così come lo stesso decreto prevede, cioè i dati epidemiologici. Ebbene questi dove sono nel caso dei nostri studi? E come potrebbero esserci, se nulla e nessuno è in grado di dimostrare che l’arresto cardiaco è più frequente nei nostri studi più che in un ufficio postale o in un panificio? Ma veramente si pensa che le nostre risorse economiche e la nostra pazienza siano infinite? E che possiamo tollerare ancora di essere considerati gli “untori” anche del terzo millennio?
Renato Mele
Rappresentante toscano nella Consulta
ENPAM della libera professione