La metodica di preparazione endocrown risale alla fine degli anni Novanta e ha da subito ottenuto buoni risultati. Serviva però una revisione sistematica della letteratura per suffragare il senso comune e se ne sono incaricati i ricercatori dell’Università Federale di Pelotas, in Brasile, che hanno valutato sia la sopravvivenza clinica che la resistenza alla fattura in vitro, confrontandole con altri tipi di trattamento.
La conclusione è positiva per le endocrown: secondo i risultati della metanalisi, raggiungono prestazioni uguali o migliori rispetto agli approcci tradizionali che fanno uso di perni intraradicolari, resine composite per ricostruzioni dirette o restauri inlay e onlay indiretti. Il successo delle endocrown è variato, a seconda degli studi, dal 94 fino al 100%. Anche se l’analisi per sottogruppi non ha evidenziato differenze statisticamente significative per i denti posteriori, l’analisi complessiva ha rilevato una maggiore resistenza alle fratture rispetto agli altri trattamenti.
Diversi fattori possono aver determinato il buon risultato. Gli autori citano, ad esempio, la ghiera, «che è tipicamente presente nelle corone tradizionali e che può essere descritta come un “meccanismo di rinforzo” del restauro intorno alla struttura cervicale del dente e che può causare una perdita di tessuti (smalto e dentina) importanti per una buona aderenza del restauro; invece le endo-crowns sono normalmente preparate senza ghiera».
In secondo luogo, lo spessore della porzione occlusale delle endocrown varia dai tre ai sette millimetri, mentre nelle corone tradizionali è minore (1,5-2 mm): «tenendo conto che un maggiore spessore occlusale del restauro comporta una più elevata resistenza alle fratture, le endocrown tendono a resistere meglio al carico».
Infine, le corone tradizionali sono generalmente preparate utilizzando materiali con modulo elastico differente, per esempio metallo o fibre di vetro rinforzato per la porzione posteriore e resine composite o ceramica per la parte anteriore: questa differenza può esercitare un’influenza negativa sulla distribuzione del carico, di cui non risente il “monoblocco” con cui sono realizzate le endocrown.
Un aspetto importante da rilevare è che quattro degli otto studi analizzati dagli odontoiatri brasiliani erano statati condotti sui denti posteriori e i premolari hanno costituito circa il 58% del campione, probabilmente perché più facili da ottenere e da restaurare rispetto ai molari per gli studi in vitro, e questo può aver influito sul risultato complessivo. Infatti, in uno studio clinico, si è osservato che le endocrown si associano a una maggiore percentuale di fallimenti nei premolari che nei molari, presumibilmente a causa della minore area di adesione e della maggiore altezza della corona; inoltre, i premolari sono soggetti a maggiori forze esercitate in senso orizzontale, altro fattore che può influire sulla resistenza alla frattura.
Gli stessi autori consigliano dunque una certa cautela nell’accettare in modo acritico la superiorità delle endocrown e consigliano ulteriori studi su una metodica che, comunque, ha superato un esame importante di evidence based dentistry.
Giampiero Pilat
Giornalista Italian Dental Journal