I fenomeni di atrofia ossea, conseguenti alla perdita del dente, rappresentano spesso un limite anatomico al posizionamento di impianti osteointegrati. L’alterazione dei rapporti anatomici tra la cresta ossea e le strutture anatomiche, quali il nervo alveolare e il seno mascellare, richiedono talvolta soluzioni terapeutiche particolarmente invasive. Gli impianti corti, proposti come alternativa terapeutica in caso di insufficiente altezza ossea, hanno ricevuto un forte impulso nel corso degli ultimi anni grazie allo sviluppo delle morfologie e del trattamento delle superfici implantari. Al giorno d’oggi si definiscono short gli impianti di lunghezza compresa tra i 6 e gli 8 mm, mentre ultra short sono considerate le misure di lunghezza inferiori ai 6 mm (1).
I risultati pubblicati in letteratura (2, 3), basati su una grande quantità di studi clinici, rendono attualmente gli impianti corti un’alternativa affidabile in particolari situazioni cliniche, come ad esempio nei pazienti che presentano anamnesi mediche complesse.
Caso clinico
Il caso clinico, qui di seguito descritto, illustra l’impiego di impianti ultra short, di lunghezza pari a 5,2 mm, in un paziente Asa 3, giunto alla nostra osservazione richiedendo una riabilitazione fissa del sestante superiore sinistro. L’esame clinico evidenziava l’assenza dell’elemento 2.6 e una prognosi sfavorevole del 2.7, a causa di una frattura del pavimento della camera pulpare (fig. 1). L’esame radiografico eseguito mostrava un’altezza della cresta ossea insufficiente al posizionamento di un impianto standard nella zona del primo molare e una significativa ipertrofia della mucosa sinusale (fig. 2). Da parte del paziente vi era espressa richiesta di evitare il ricorso a trattamenti che prevedessero interventi ripetuti e complessi, quali il rialzo di seno.
Sulla base di queste considerazioni si decideva quindi di procedere con l’inserimento di due impianti: uno short in sede 2.6 e il secondo immediato post estrattivo sul 2.7. Dopo aver eseguito l’estrazione del secondo molare, si disegnava un lembo esteso dalla tuberosità retromolare fino alla papilla mesiale del 2.5. Si eseguiva quindi una meticolosa pulizia dell’alveolo post-estrattivo, in seguito alla quale si apprezzava la presenza di una vasta area osteolitica in corrispondenza degli alveoli delle radici vestibolari. Il setto osseo interradicolare, invece, presentava un buon livello e uno spessore adeguato, tale da consentire un’espansione in direzione vestibolare per un corretto inserimento dell’impianto; veniva quindi posizionato un impianto di diametro 5,5 mm e una lunghezza di 10 mm con un torque di inserimento superiore ai 40 N/cm2 (blueSKY, Bredent). Nella sede del 2.6 si procedeva all’inserimento di un impianto di diametro 6 mm e lunghezza 5.2 mm (copaSKY, Bredent), anche qui con un torque di inserimento superiore ai 40 N/cm2 (figg. 3, 4 e 5). Il lembo veniva richiuso con sutura a punti staccati e il paziente dimesso. Il decorso post-operatorio era nella norma senza complicazioni di rilievo. Dopo tre mesi, attesa l’osteointegrazione degli impianti, si procedeva alla scopertura e all’inserimento dei pilastri di guarigione. Il paziente veniva quindi riferito al protesista per l’applicazione delle protesi provvisorie e, quindi, della riabilitazione protesica finale (fig. 6).
Gli impianti sono stati controllati con cadenza annuale per verificare il mantenimento dei livelli ossei. Dopo tre anni, la radiografia eseguita evidenziava un’assoluta assenza di riassorbimento osseo intorno all’impianto in sede 2.6 mentre sul 2.7 si poteva osservare una minima perdita a livello crestale (fig. 7).
Discussione
L’impiego di impianti corti è stato spesso oggetto di controversia tra gli implantologi. Lo scetticismo che ha accompagnato per lungo tempo questo tipo di dispositivo implantare, a causa della significativa percentuale di fallimento riportata in letteratura, si è progressivamente tramutato in un sempre maggiore gradimento. Questo grazie ai significativi risultati ottenuti in numerosi trial clinici condotti negli ultimi anni. Certamente, a nostro parere, il ricorso a impianti short consente di ridurre significativamente la complessità e l’invasività di trattamenti implantari in particolari condizioni cliniche, come quella descritta nel presente caso. Allo stesso modo, il parametro del rapporto impianto-corona non appare essere un elemento di criticità quanto invece, a nostro avviso, rimane problematica la gestione dei tessuti molli nelle aree con spiccate atrofie in senso verticale.
In conclusione, si può certamente affermare la validità dell’impianto corto come alternativa terapeutica in particolari condizioni cliniche, laddove non si voglia o non sia possibile il ricorso a interventi di complessità maggiore.
Bibliografia
1. Neugebauer J, Nickenig HJ ZJ. Update on short, angulated and diameter-reduced implants. (Presented at the 11th European Consensus Conference, Cologne, 6 Feb 2016.).
2. Papaspyridakos P, De Souza A, Vazouras K, Gholami H, Pagni S, Weber HP. Survival rates of short dental implants (≤6 mm) compared with implants longer than 6 mm in posterior jaw areas: a meta-analysis. Clin Oral Implants Res. 2018 Oct;29 Suppl 16:8-20.
3. Felice P, Barausse C, Pistilli R, Ippolito DR, Esposito M. Five-year results from a randomised controlled trial comparing prostheses supported by 5-mm long implants or by longer implants in augmented bone in posterior atrophic edentulous jaws. Int J Oral Implantol (Berl). 2019;12(1):25-37. PMID: 31116186.
Giovanni Ghirlanda, Libero professionista a Roma
Laura Campos, Libera professionista a Roma

Giovanni Ghirlanda
Libero professionista in Roma