Secondo il gruppo di ricercatori Dental Biomaterials Science-Research, attivo sul web, la ricerca sui biomateriali in odontoiatria soffre di investimenti ridotti in Italia e in Europa. E quando un materiale è pronto, emergono resistenze ad applicarlo
La ricerca scientifica sui biomateriali avviene sia nelle università, sia nei laboratori di ricerca e sviluppo delle aziende del settore dentale. Non è semplice definire in quale di queste sedi avvenga prima: «sarebbe un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina», scherza Salvatore Sauro, capo della ricerca dentale e professore universitario in Spagna, e precisamente a Valencia, dove insegna “Dental biomaterials, preventive and minimally invasive dentistry” presso l’Universidad Ceu-Cardenal Herrera. «Molte volte – chiarisce – sono le aziende che mettono a punto un nuovo materiale, lo testano nei propri laboratori e lo lanciano sul mercato con relativa certificazione e, solo in seguito, stimolano gruppi di ricerca universitari o indipendenti a eseguire studi clinici e di laboratorio alternativi che confermino l’efficacia del materiale. In altre occasioni sono i ricercatori universitari a sviluppare un materiale di nuova generazione o una tecnica clinica, a brevettarla e a trasmetterla ad aziende interessate alla distribuzione del prodotto».
Salvatore Sauro, insieme a un gruppo di amici con la passione della ricerca scientifica in campo dentale, ha creato Dental Biomaterials Science-Research, una pagina web (www.dentalbmsr.org) e un gruppo Facebook che dà voce ai tanti ricercatori dentali di tutto il mondo che vogliono avere un comunicazione più diretta con aziende, colleghi, studenti e clinici disposti a dedicare qualche minuto di attenzione alle loro opinioni e ai loro dati scientifici.
Professor Sauro, c’è dunque una collaborazione fattiva tra industria e università?
Esiste una collaborazione tra università e industria, ma sfortunatamente questo coinvolge spesso solo centri di ricerca universitari con un certo prestigio scientifico e aziende dentali con uno spiccato senso di collaborazione e di fiducia verso i ricercatori universitari. Capita spesso, infatti, che molte aziende “ignorino” tanti ricercatori o gruppi di ricerca universitari con un H-index non particolarmente elevato: tutto ciò è dovuto al fatto che sono fondamentalmente alla ricerca di opinion leader o gruppi di ricerca guidati da principal investigator con un’influenza rilevante sull’opinione e sull’operato degli operatori clinici.
In altre parole, esistono tanti bravi ricercatori universitari in tutto il mondo, ma spesso questi rimangono isolati nei propri laboratori senza che nessuna azienda si preoccupi del loro operato scientifico. Al contrario, ci sono casi in cui opinion leader hanno una sostanziale collaborazione con aziende dentali, spesso molto ben retribuita, non tanto per la propria abilità scientifica, quanto per il peso politico che essi hanno all’interno di un sistema odontoiatrico che non sempre risulta limpido e trasparente. Non è mia intenzione fare polemica o generalizzare sui fatti, ma sfortunatamente questa è spesso la realtà in odontoiatria, in particolare nelle relazioni tra colossi aziendali di materiali dentari e opinion leader clinici o scientifici.
La situazione più frequente è quella in cui l’idea nasce dall’industria che ha già in mente un obiettivo e contatta i ricercatori in università, oppure i meccanismi prevalenti sono differenti?
Se parliamo di una collaborazione di ricerca sana e trasparente, l’idea di un progetto o un protocollo scientifico può originare da entrambi i lati. Ma se interessi di business prevalgono sull’importanza scientifica del materiale stesso o di una procedura clinica, allora sono principalmente le industrie dentali a dettare un obiettivo ben preciso ed entrare in contatto con ricercatori e opinion leader, affinché questi ultimi possano svolgere un’attività più “comunicativa e pubblicitaria” che una vera e propria attività di ricerca e relativa diffusione di dati scientifici.
Ci sono però anche tante aziende dentali molto serie e professionali, che collaborano con i ricercatori universitari per poter effettivamente ottenere lo sviluppo e il perfezionamento dei loro materiali dentali o per migliorarne gli step applicativi; spesso e volentieri questi ultimi giocano un ruolo fondamentale nel successo o fallimento di tanti materiali, nonostante siano stati perfettamente sviluppati da un punto di vista chimico.
È un settore che lascia molto spazio alla ricerca di base o prevale l’orientamento all’applicazione e al mercato?
I ricercatori universitari tendono a fare sia una buona ricerca di base che una ricerca destinata allo sviluppo e innovazione dei materiali dentali. Spesso, ma non sempre, quando c’è una collaborazione tra aziende e ricercatori universitari prevale l’orientamento all’applicazione e al mercato; credo che sia anche giusto così. Bisogna precisare che, oggi più che mai, è necessario un equilibrio tra l’equità nell’accesso alla tecnologia e l’appropriatezza del trattamento, la sostenibilità finanziaria del sistema, il rinnovamento tecnologico e la concorrenza del mercato.
Va evidenziato, tra l’altro, che le aziende del settore soffrono profondamente la concorrenza sleale di chi introduce sul mercato prodotti di bassa qualità. Credo che noi ricercatori abbiamo l’obbligo di ascoltare, capire e andar incontro alle esigenze delle aziende, senza però perdere la nostra etica scientifica e cadere, a causa dei pochi finanziamenti disponibili per il campo dentale a livello nazionale ed europeo, nella tentazione di accaparrarci un fondo di ricerca o una borsa di studio al prezzo della divulgazione di dati non propriamente attendibili e cristallini.
In quali settori dell’odontoiatria la ricerca è più attiva e promettente?
Ci sono gruppi di ricerca che da anni svolgono un’intensa attività investigativa su microbiologia orale, saliva e ghiandole salivari, biomateriali dentali, rigenerazione dei tessuti duri e morbidi come polpa dentale e legamento paradontale, così come terapia e identificazione precoce delle neoplasie del collo e della cavità orale. In tutti questi campi sono già stati raggiunti risultati significativi, che porteranno presto alla commercializzazione di materiali e alla diffusione di tecniche cliniche che rivoluzioneranno la pratica clinica quotidiana.
Qual è l’iter che porta un prodotto dal laboratorio all’utilizzo effettivo nello studio del dentista?
Bisogna considerare che diversi aspetti possono condizionare questo iter. Il primo è di natura scientifica; vale a dire che i nuovi prodotti devono superare una serie di test fisico-chimici, di biocompatibilità in vivo/in vitro e finalmente essere certificati secondo le normative europee. Superata questa fase il materiale è potenzialmente pronto per essere distribuito ai dentisti e applicato clinicamente ai pazienti.
L’altro fattore importante è di natura aziendale; questo dipende da strategie di mercato e dalle priorità dell’azienda che ha sviluppato il materiale. Faccio un esempio: molto spesso si discute sul fatto che alcune case farmaceutiche abbiano già le cure per determinate patologie, ma che non vogliano commercializzarle perché per il momento non darebbero i risultati economici sperati; di conseguenza attenderebbero il momento commercialmente più idoneo per il lancio e la distribuzione del prodotto. Probabilmente sono luoghi comuni e solo discorsi da bar, invece nel campo dei materiali dentali questo avviene spesso. Le cause non sono solo di natura commerciale e legate al business, ma anche per una forma di difficoltà da parte della maggioranza dei dentisti ad accettare un materiale o una tecnica innovativa che porterebbe a modificare radicalmente i loro protocolli clinici, applicati spesso da lungo tempo.
Cosa si potrebbe fare per facilitare una tempestiva disponibilità dei prodotti per la pratica clinica?
Io credo che la responsabilità nel preparare dentisti più inclini a questi cambiamenti sia delle università, e in particolar modo dei docenti, che dovrebbero essere sempre aggiornati e pronti a introdurre protocolli alternativi e innovativi nella loro attività di insegnamento teorico e clinico.
Sono consapevole di essere un po’ polemico su questo argomento, ma credo che il sistema universitario abbia bisogno di un aggiornamento sostanziale. I docenti più anziani, che rimangono ancorati ad arcaici dogmi d’insegnamento, così come tutti quei docenti che hanno ottenuto posizioni di rilievo per meriti extra-universitari, dovrebbero essere forzati a cedere il passo a elementi molto più preparati dal punto di vista didattico e scientifico.
Questa, a mio avviso, sarebbe una forma davvero avanzata per “fare innovazione”, che porterebbe alla formazione di una nuova generazione di dentisti pronti a comunicare in maniera più fluida con il mondo della ricerca e ad applicare senza grandi sforzi le novità scientifiche alla pratica clinica quotidiana. Di conseguenza, si produrrebbe anche un importante stimolo all’economia dentale e alle industrie del settore, che sarebbero più motivate a sviluppare e distribuire biomateriali di nuova generazione. Un esempio sono i materiali da restauro smart, già disponibili da diversi anni nei laboratori aziendali e universitari, in grado di rigenerare i tessuti dentali danneggiati dalla carie e di prevenirne l’insorgenza.
Renato Torlaschi
Giornalista Italian Dental Journal