L’indecifrabilità della variabilità individuale delle cause della malattia parodontale suggerisce terapie personalizzate. Dal microbioma alla genetica, la ricerca clinica sta indagando strade concrete per un approccio che sia realmente efficace
Paziente con scarsa igiene, depositi di tartaro e pigmentazioni da tabagismo; le migliori premesse per un disastro parodontale. E invece no: nonostante l’alito canino, il paziente sfoggia un parodonto robusto, appenninico, con una gengiva più a buccia d’arancia degli agrumi di Lentini. Un quadro clinico simile non è una rarità da case report e controbilancia quello del paziente diligente con parodonto friabile, colore rosso Barbera e mobilità dentale ingravescente.
Dopo avere trascorso anni alla ricerca del primum nocens, del microrganismo alfa, il padre di tutte le parodontopatie, si è capito che la questione è molto più complicata. Non solo le specie coinvolte sono molte ma giocano un ruolo altrettanto importante le loro interrelazioni e, soprattutto, la risposta del singolo ospite che mostra una grande differenza interindividuale.
Uno studio multicentrico
Una conferma di tutto ciò arriva da una squadra multinazionale di ricercatori, due dei quali, Giorgio Casaburi e Francesco Salvatore, operanti presso l’università Federico II di Napoli. Obiettivo della ricerca era quello di analizzare le variazioni della popolazione microbica nelle tasche parodontali dopo trattamento standard (detartrasi e levigatura radicolare) utilizzando tecniche avanzate come la Next-Generation Sequencing (Ngs) che permette di stabilire velocemente la sequenza dei nucleotidi presenti negli acidi nucleici. Il campione di soggetti, selezionato presso l’università californiana di San Diego, si componeva di 36 pazienti con parodontite di varia gravità e 4 controlli sani. Sia prima che sei settimane dopo il trattamento parodontale venivano prelevati due campioni di placca dalle tasche più profonde.
I risultati, in estrema sintesi, mostrano che non vi sono chiare differenze tra i campioni raccolti prima e dopo la terapia e che, a livello individuale, essi rimangono molto simili, come se scaling e root planing avessero avuto ben poco effetto sulla composizione della popolazione microbica.
Una delle poche certezze è la correlazione significativa tra profondità delle tasche e Fusobacterium, una specie nota per il ruolo strategico nella formazione del biofilm dove fa da ponte tra colonizzatori precoci e tardivi. Il dato che più si fa notare è la grande variabilità individuale anche nei casi che rispondono bene alla terapia, dove, per esempio, Prevotella diminuisce drasticamente ma la sua quantità iniziale varia da soggetto a soggetto mentre Veillonella non aumenta col miglioramento clinico, come invece i ricercatori si aspettavano in base alle conoscenze disponibili.
Malattia parodontale sembra indecifrabile
La parodontologia è tra le discipline che hanno dato più soddisfazioni a chi ha vissuto la transizione dai mutilanti interventi resettivi degli anni ’80 alle membrane riassorbibili di oggi; eppure, rimane ancora moltissimo da chiarire nell’etiopatogenesi e nella progressione delle malattie parodontali, dove la componente flogistico-immunitaria acquista sempre più importanza su quella infettiva.
A partire dalla fine degli anni ’90 si incominciò a puntare molto l’attenzione sul cosiddetto “red complex” (Porphyromonas gingivalis, Tannerella forsythia e Treponema denticola) sulla scia delle ricerche di Socransky ma è ora chiaro che non esiste un preciso “status” microbiologico che identifica la malattia parodontale, come avviene per ogni malattia infettiva propriamente detta, ed è sconsolatamente probabile che non avremo mai un antibiotico risolutivo per la parodontite, così come non avremo mai un vaccino anticarie, perché ogni individuo coabita con un proprio microbioma.
Di conseguenza, è necessario anche riconsiderare il ruolo degli antibiotici, considerando pure che le indagini colturali classiche non possono duplicare in vitro il megaminimondo della tasca parodontale. Nelle tasche, infatti, si annidano specie patogene con diverse sensibilità alle varie molecole ma, soprattutto, sarà necessario arrivare a una personalizzazione del trattamento in base al microbioma individuale e alla farmacogenomica; un aiuto importante arriverà anche dalla metagenomica, grazie alla quale è possibile studiare una comunità microbica nel suo stesso ambiente, senza la necessità di isolare e coltivare in laboratorio i singoli organismi.
Cosma Capobianco
Odontoiatra
Schwarzberg K, Le R, Bharti B, Lindsay S, Casaburi G, Salvatore F, Saber MH, Alonaizan F, Slots J, Gottlieb RA, Caporaso JG, Kelley ST. The personal human oral microbiome obscures the effects of treatment on periodontal disease. PloS One. 2014 Jan 29;9(1):e86708
I «GENI» DEL PARODONTO_La recente e spettacolare evoluzione delle tecnologie non si è ancora tradotta in un vantaggio concreto per i pazienti parodontali.
Per esempio, lo studio delle molecole di Rna messaggero prodotte dalle cellule (per gli addetti ai lavori la transcrittomica), ha messo in luce molte differenze tra soggetti sani e malati ma non ha ancora dato vita a un esame impiegabile nella clinica. Poco di più ha fatto la genomica, cioè lo studio di tutto il Dna: sono pochissimi i geni identificati sicuramente associati a una forma di parodontite. Tra questi c’è il GLT6D1 che codifica una proteina molto presente nel connettivo gengivale che contribuisce alla sintesi di un antigene. Molto ci si attende anche dalla proteomica (lo studio delle proteine presenti in un campione di tessuto) e dalla metabolomica, soprattutto dallo studio dell’attività delle proteasi, una classe di enzimi molto attiva nelle malattie parodontali dove vi è un’intensa distruzione tissutale. Le informazioni disponibili sono per ora, purtoppo, di esclusivo interesse teorico, come per esempio la non espressione nei parodontopatici della diacilglicerolkinasi, un enzima del metabolismo lipidico.
Grant MM. What do ‘omic technologies have to offer periodontal clinical practice in the future? J Periodontal Res. 2012 Feb;47(1):2-14.