Il legame felicità e salute è probabilmente tra i paradigmi più interessanti in ambito medico e i meccanismi che si ipotizza essere alla base di questa relazione risiedono nella possibilità che la felicità possa lei stessa produrre dei cambiamenti biologici che espongono le persone a un maggiore rischio di morire, ad esempio aumentandone i livelli di cortisolo sierico o diminuendo la funzionalità del sistema immunitario.
È stato visto come essere in scarsa salute possa rendere il soggetto infelice nonché aumentarne il rischio di morte e, a complicare il quadro, si aggiunge come l’infelicità si correli positivamente all’esposizione del paziente a fattori di rischio noti, quali fumo, alcol, obesità, ridotto esercizio fisico.
Districandosi tra queste criticità, gli autori di un recente articolo pubblicato su The Lancet tentano di stabilire se, una volta esclusi potenziali elementi confondenti, sia possibile correlare la felicità direttamente a una ridotta probabilità di morire. Il Million Women Study è l’enorme studio a coorte, prospettico condotto nel Regno Unito a tale scopo. Quasi un milione di donne inglesi (719.671 per la precisione), tra i 50 e i 69 anni, sono state reclutate tra il 1996 e il 2001 attraverso il programma di screening nazionale per la prevenzione del tumore al seno, il Breast Screening Programmes of England and Scotland. Le stesse sono state, successivamente, seguite elettronicamente nel tempo per identificarne la morte (eventuale) per specifiche cause. Al tempo zero e poi periodicamente, si raccoglievano dati sui livelli di stress della paziente, nonché i fattori socio-demografici, i dati anamnestici e le abitudini di vita. A tre anni dal reclutamento veniva somministrato un questionario dove si chiedeva alle le donne di auto-attribuirsi due giudizi, uno relativo alla propria salute (“eccellente”, “buona”, “modesta” o “scarsa”) e un secondo relativo alla propria felicità. Si valutava, in particolare, la risposta alla domanda: «Quanto spesso ti senti felice?» e le possibili risposte venivano divise in tre categorie: “sono felice la maggior parte del tempo”, “sono solitamente felice” oppure “sono raramente o mai felice” (quest’ultima categoria etichettata come “infelice”).
Il 39% delle donne riportava di essere felice per la maggior parte del proprio tempo, il 44% di essere solitamente felice e il 17% di essere infelice. L’autovalutazione, al tempo zero, di scarsa salute si correlava fortemente all’infelicità. La felicità si legava, invece, in modo significativo all’invecchiamento, a un più basso livello di educazione, all’esercizio fisico, al non fumare, al vivere con un partner e a partecipare ad attività di gruppo, incluse quelle religiose. Il legame tra felicità e numero di ore di sonno seguiva, invece, una curiosa curva J-shaped, dove dormire 8 ore di sonno dava la maggiore probabilità essere felice. Il trattamento per ansia e depressione vedeva, invece, la più forte associazione con l’infelicità, nonché con la percezione di una scarsa condizione di salute generale.
Durante i dieci anni di follow-up, il 4% delle partecipanti moriva. Dopo aver aggiustato l’analisi statistica per possibili fattori confondenti (terapie per ipertensione, diabete, asma, depressione, ansia, artrite) e per i molti mediatori del legame infelicità-mortalità, quali i fattori socio-demografici e alcuni stili di vita (fumo e obesità), l’infelicità non risultava, alla fine, direttamente associabile alla mortalità per tutte le cause, come neppure alla mortalità per cause specifiche, ad esempio cardiopatia ischemica o cancro. L’aggiustamento, in particolare, per la maggior parte dei fattori comportamentali, eccetto che per il fumo, risultava avere un’influenza molto piccola sulle stime di rischio, evidenziando come questi elementi, pur mediatori dell’associazione, contribuissero minimamente alla stessa. Il fumo, al contrario, mostrava il ruolo più rilevante, con particolare riferimento alla mortalità per tumore.
In conclusione il Million Women Study insegna come la scarsa salute generale possa causare infelicità nei pazienti, ma anche come, una volta eliminati potenziali fattori confondenti, l’infelicità non abbia alcun effetto diretto sulla mortalità.
Elena Varoni
Odontoiatra