Alla comprensione dell’osteopercezione, fenomeno alla base dell’integrazione funzionale dell’impianto dentale. Un adattamento compensativo fisiologico, promosso dalla stimolazione meccanica dell’impianto, che si avvicina di molto alla sensibilità naturale
La crescente popolarità dell’implantologia osteointegrata, sottesa dai continui avanzamenti della pianificazione implantare, delle tecniche chirurgiche, dell’odontoiatria rigenerativa, dei materiali e del design protesico, trova sempre più conferme sul piano scientifico grazie al moltiplicarsi degli studi sugli esiti clinici, anatomici e funzionali degli interventi e sui fattori che possono condizionarli.
In tema di performance riabilitativa dei trattamenti post-estrattivi, da una ventina d’anni riceve particolare attenzione nella ricerca preclinica e clinica, nonché spazio nella letteratura specialistica, la cosiddetta osteopercezione. Dal punto di vista teorico il fenomeno – la cui esistenza è stata in realtà ipotizzata per la prima volta all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo in campo ortopedico in relazione alla sostituzione protesica di arti amputati – altro non è che il risultato di un processo di adattamento sensoriale strettamente legato a quello dell’osteointegrazione degli impianti. Tale processo è riconducibile al fatto che la perdita dei meccanocettori del legamento parodontale e dei relativi input propriocettivi a conduzione trigeminale risultante dall’asportazione del dente viene in qualche modo compensata dall’attivazione di altri recettori prossimi, quelli presenti nei tessuti osseo, periostale e parodontale peri-impianto, e remoti, quelli presenti a livello dei muscoli masticatori e dell’articolazione temporo-mandibolare. Stando alle valutazioni degli studi di psicofisica la sensibilità tattile così preservata, benché non sovrapponibile a quella originaria, sarebbe qualitativamente e quantitativamente sufficiente a garantirne la funzione adattativa di feedback in risposta al carico occlusale, e quindi di modulazione dell’attività motoria, anche in corrispondenza della regione perimplantare.
In un’ottica clinica ciò assume il significato di un bilanciamento protettivo nei confronti delle prevedibili conseguenze della perdita della funzione sensoriale del dente naturale, vale a dire dell’inadeguata regolazione neuromuscolare della forza masticatoria e del conseguente sovraccarico sull’impianto, che favorendo il riassorbimento alveolare può determinarne il fallimento.
Le metodologie di studio
Ad oggi le evidenze relative al fenomeno dell’osteopercezione sono numerose anche se il quadro completo dei meccanismi attraverso i quali si sviluppa e opera deve ancora essere delineato. Solo nel corso di quest’anno sono stati pubblicati tre lavori di revisione sistematica degli studi che a partire dalla sua prima definizione si sono occupati di analizzare le prerogative anatomo-funzionali dell’osteopercezione e in alcuni casi di comparare la capacità sensoriale sviluppata a seguito degli interventi di implantoprotesi con quella della dentatura naturale e con quella rilevabile in pazienti con protesi tradizionali. A seconda degli obiettivi di ricerca sono stati utilizzati diversi metodi di indagine, tra cui l’osservazione istologica, i test psicofisici e le tecniche neurofisiologiche e di neuroimaging.
Per ciò che attiene alla pratica clinica i dati di più immediato interesse sono senz’altro quelli delle misurazioni psicofisiche, essendo quelli istologici e neurofisiologici rappresentativi del substrato anatomico e fisiologico dei riscontri percettivi descritti dalle prime e pertanto degli esiti funzionali dei trattamenti implantologici. Gli studi psicofisici si sono focalizzati sui due principali parametri della sensibilità tattile attiva e della sensibilità tattile passiva al fine di determinare i valori soglia delle sensazioni suscitate dagli stimoli applicati a livello degli impianti e le relative differenze rispetto alle due condizioni di confronto. Le due forme di sensibilità si distinguono concettualmente in quanto hanno a che fare quella passiva esclusivamente con l’attività dei recettori locali peri-impianto e quella attiva con l’apparato recettoriale mandibolare complessivo che include le terminazioni remote muscolari e articolari, e di conseguenza anche sul piano metodologico perché vengono calcolate con procedure differenti ed espresse in unità di misura diverse: la sensibilità tattile attiva viene accertata registrando il minimo spessore in micrometri (μm) di una lamina metallica sottile avvertito dal paziente a livello dell’impianto nel contatto occlusale, mentre la sensibilità tattile passiva viene misurata esercitando con tecnica manuale o semi-automatica una pressione di entità variabile quantificata in Newton (N) direttamente sull’impianto per rilevarne la soglia percettiva.
Questione di sensibilità
La revisione sistematica apparsa a maggio sul Journal of Oral Rehabilitation (1), che è stata realizzata in Belgio presso l’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, e ha incluso tutti gli studi focalizzati sul fenomeno dell’osteopercezione con i diversi approcci, istologico, psicofisico e neurofisiologico, pubblicati fino al mese di giugno del 2021, ha sintetizzato i risultati emersi dalle misurazioni della sensibilità tattile attribuendo agli impianti valori soglia di 5 e di 50 volte superiori a quelli dei denti naturali rispettivamente per la sensibilità attiva e per quella passiva, pur con prestazioni genericamente migliori rispetto a quelle delle protesi tradizionali.
Nel loro lavoro (2) dedicato invece specificatamente all’indagine psicofisica comparativa, Diego González-Gil e collaboratori della Clinica Odontoiatrica dell’università spagnola di Salamanca hanno preso in esame dieci studi clinici realizzati tra il 2004 e il 2019 arrivando a stimare per ciascun tipo di sensibilità dei valori soglia medi che possano essere considerati come parametri di riferimento, benché puramente indicativi per loro stessa ammissione, data l’eterogeneità metodologica riscontrata tra i lavori vagliati.
Premesso che la maggior parte delle ricerche ha riguardato la sensibilità tattile attiva piuttosto che quella passiva, in parte perché più semplice da misurare dal punto di vista tecnico e in parte perché maggiormente rappresentativa della condizione clinica reale, e ha messo a confronto le performance delle protesi osteointegrate con quelle degli elementi naturali antagonisti piuttosto che con quelle delle protesi tradizionali, i valori soglia calcolati depongono nettamente a favore dei trattamenti implantologici: la media di 23,3 μm di questi ultimi si discosta relativamente poco dai 16,1 μm della dentatura naturale, con una differenza di 7,2 μm contro quella di 40,6 μm rilevata tra impianti e protesi tradizionali totali negli unici due studi che hanno eseguito tale comparazione.
Quanto alla sensibilità passiva delle implantoprotesi, che è stata oggetto di analisi solo in due studi tra quelli inclusi nella revisione e solo in uno raffrontata con quella dei denti naturali, anche in questo caso i valori soglia presentano una notevole variabilità imputabile alle diverse metodologie utilizzate (da 2,5 a 10,9 N), dai quali tuttavia i ricercatori spagnoli hanno ricavato una differenza tra le due condizioni di 1,7 Newton.
In sintesi, per quanto non definitive per mancanza di omogeneità, le valutazioni quantitative estratte dalla letteratura testimoniano da un lato che in seguito alla perdita della sensibilità del legamento parodontale che accompagna l’estrazione di un elemento dentale si innesca un adattamento compensativo fisiologico (l’osteopercezione) e dall’altro che tale processo viene evidentemente promosso dalla stimolazione meccanica diretta sull’osso alveolare sottostante generata dall’ancoraggio dell’impianto, approssimandone la sensibilità a quella naturale molto più che in sua assenza.
Monica Oldani
Giornalista Italian Dental Journal
Bibliografia:
1. Song D, Shujaat S, Politis C, Orhan K, Jacobs R. Osseoperception following dental implant treatment: a systematic review. J Oral Rehabil. 2022 May;49(5):573-585.
2. González-Gil D, Flores-Fraile J, López-Marcos J. Tactile sensibility thresholds in implant prosthesis, complete dentures and natural dentition: review about their value in literature. Medicina (Kaunas). 2022 Mar 31;58(4):501.
3. González-Gil D, Dib-Zaitum I, Flores-Fraile J, López-Marcos J. Importance of osseoperception and tactile sensibility during masticatory function in different prosthetic rehabilitations: a review. Medicina (Kaunas). 2022 Jan 7;58(1):92.
LE BASI NEUROFISIOLOGICHE DELL’OSTEOPERCEZIONE_All’inquadramento del fenomeno dell’osteopercezione e in particolare delle corrispondenti basi anatomo-fisiologiche hanno contribuito, anche se con dati clinici ancora limitati, le osservazioni istologiche che hanno verificato l’evoluzione dell’innervazione perimplantare successiva all’intervento e al carico e gli studi neurofisiologici che hanno analizzato parallelamente l’attività della porzione somatosensoriale del nervo trigemino attraverso i potenziali evocati e delle aree corticali sensitive con la risonanza magnetica funzionale.
Dalla revisione sistematica condotta dai ricercatori di Lovanio sono emersi cinque studi istologici, prevalentemente condotti in modelli animali, che documentano l’immediata reinnervazione della regione perimplantare con un progressivo aumento del numero e della densità di fibre sia mielinizzate sia non mielinizzate in un raggio di 200-1.000 micrometri, maggiore nell’area apicale che nelle porzioni media e coronale e negli impianti a carico immediato che in quelli a carico differito.
L’unico studio clinico, effettuato su dodici impianti asportati per fallimento a dieci pazienti, conferma tale riscontro con il reperimento di fibre mileiniche e amieliniche nei canali haversiani del tessuto osseo adeso alla filettatura delle viti. In ambito neurofisiologico i due studi condotti con il ricorso ai potenziali evocati e l’unico studio di neuroimaging finora realizzato attestano l’attivazione trigeminale e delle corrispettive aree corticali in risposta a sollecitazione meccanica dell’impianto applicata a livello dell’abutment, attivazione che risulta essere di entità inferiore a quella registrata per gli elementi dentali naturali, ma nettamente superiore a quella generata in presenza di protesi tradizionali.