
Marco Esposito
“Peri-implantitis and systemic diseases, a ticking bomb?” il titolo del congresso organizzato lo scorso ottobre ad Assago con il supporto non condizionante dell’azienda implantare Bone System, suonava già piuttosto minaccioso, riferendosi alle emergenti preoccupazioni che, così come accade per la malattia parodontale, anche la perimplantite si associ a malattie sistemiche. Tuttavia, mentre la perimplantite si rivela come una minaccia sempre più concreta, forse è meglio provare a mantenere la calma e mettere qualche punto fermo sui dati fondamentali: frequenza, diagnosi, trattamenti, a cominciare dalle definizioni.
Per fare questo Marco Esposito, oltre ad attingere alla propria esperienza personale, si è avvalso di tutte le evidenze scientifiche presenti nella letteratura, premettendo che, «anche nelle perimplantiti, la prima cosa da fare è una diagnosi differenziale: se si individua la causa si può sperare di trovare una soluzione, che altrimenti può essere solo frutto del caso».
Direttore della rivista European Journal of Oral Implantology, Marco Esposito è anche uno dei direttori associati del Cochrane Oral Health Group e mantiene il suo titolo di professore associato in biomateriali a Göteborg. Proprio nella cittadina svedese, la patria dell’implantologia, dove insegnò Per-Ingvar Brånemark, Esposito ha lavorato per 15 anni, seguiti da sei in Inghilterra, prima di tornare, quattro anni fa, in Italia, dove oggi fa il ricercatore free-lance, mantenendo dunque un grado di libertà particolarmente elevato.
Italian Dental Journal lo ha intervistato a margine del congresso milanese per fare il punto sulla perimplantite, una patologia sempre più riscontrata negli studi dentistici e con la quale i professionisti dovranno confrontarsi forse sempre più spesso nella pratica clinica.
Professor Esposito, proviamo dunque a distinguere la perimplantite dalla sua parente benigna, la mucosite perimplantare
Mettiamoci in una situazione clinica. Potremmo avere un paziente con un’ipertrofia, un’infiammazione delle gengive, quindi andiamo a sondare e riscontriamo sanguinamento, allora per avere le idee più chiare magari prendiamo una radiografia. Potremmo trovare i tessuti infiammati, ma solo una perdita ossea minima; l’infiammazione può essere cronica ma è reversibile e, se vengono attuate procedure corrette, nella gran parte dei casi regredisce. Questa condizione è definita come mucosite perimplantare. Si tratta di una situazione benigna, anche se può degenerare: a dieci anni quasi l’80% dei pazienti presenta una mucosite perimplantare, in base ad alcuni dati retrospettivi di letteratura. E riteniamo che sia dovuta alla placca batterica.
In caso di perimplantite franca, invece, si ha una perdita progressiva di osso perimplantare con evidenti segni di infezione. L’eziologia probabilmente è uno squilibrio tra le difese immunitarie e la placca batterica, il che non significa che le difese siano necessariamente deboli, potrebbero anche essere troppo forti e, nel tentativo di arrestare la placca batterica che sta penetrando all’interno dei tessuti, producono una reazione talmente intensa che anche l’osso e i tessuti circostanti vengono distrutti, finché l’organismo non riesce a eliminare il problema espellendo l’impianto.
In base all’analisi della letteratura, si può stimare che circa il 20% dei pazienti, a dieci anni dall’impianto, sviluppi perimplantite.
Perché riteniamo che la mucosite possa essere indotta dalla placca batterica?
C’è qualche evidenza ormai classica. In uno studio fatto nel 1994, a un gruppo di pazienti venne chiesto di non spazzolare più; dopo una settimana si cominciarono a vedere segni di mucosite perimplantare, che peggioravano se i pazienti continuavano a non spazzolare, ma nel momento in cui il paziente riprendeva a spazzolare ecco che i segni regredivano e si tornava nella situazione iniziale.
Quindi sicuramente la placca batterica gioca un ruolo fondamentale. Poi naturalmente ci sono altri fattori che potrebbero influire sulla situazione.
Come fare diagnosi di perimplantite?
Se ispezionando i tessuti molli perimplantari si vede essudato, subito c’è l’allarme e bisogna cercare di capire quanto è grave la situazione. I segni tipici sono: gonfiore, arrossamento, sanguinamento e pus.
Il passaggio successivo è cercare di vedere se c’è stata perdita di osso perimplantare. Ecco che allora si può procedere con il sondaggio. È un po’ diverso da quello fatto attorno ai denti, la tecnica è esattamente la stessa, ma la situazione no: prima di tutto, intorno ai denti c’è un attacco parodontale che intorno agli impianti non c’è, per cui la sonda può andare molto più in profondità. E comunque, la profondità della tasca intorno a un impianto non ha lo stesso significato di una tasca intorno al dente: una tasca perimplantare può avere anche otto o nove millimetri di profondità senza che sia patologica: può essere perfettamente sana perché è creata da noi.
L’anatomia dell’impianto è un po’ particolare, ci sono impianti con spire che possono essere più o meno pronunciate e che impediscono alla sonda di penetrare oltre un certo punto, il che ci può far sottostimare il problema. Poi dipende dall’angolazione della sonda, ci sono molte protesi fatte in un modo tale che la sonda non riesce neanche a entrare, per cui delle volte per fare il sondaggio bisogna addirittura pensare di rimuovere la protesi…
Poi ovviamente dipende dall’infiammazione: più il tessuto è infiammato più la sonda penetra in profondità, appena l’infiammazione viene ridotta il sondaggio diminuisce. Bisogna ricordare che il sondaggio non è mai piacevole, ma intorno agli impianti è ancora più fastidioso e per fare un sondaggio un po’ più accurato può valer la pena di fare un’anestesia.
Quindi il sondaggio e il sanguinamento ci danno delle informazioni. Se la tasca non sanguina siamo in una situazione di assenza di patologia, ma quando la tasca sanguina potrebbe esserci patologia progressiva oppure una situazione stabile, che non andrebbe trattata. Ma non c’è nulla in grado di dirci se c’è stabilità, non esistono marker in commercio in grado di differenziare queste due fasi. Di conseguenza tutti i pazienti vengono trattati, sia chi è in fase acuta sia chi è in fase silente: questi ultimi non avendo problemi magari non danno una grande risposta, invece chi è in fase attiva può trarre sensibili miglioramenti dalla terapia.
Quanto ci può essere d’aiuto l’analisi radiografica?
Molto, e possiamo avere informazioni maggiori se abbiamo a disposizione una radiografia precedente il manifestarsi del problema. Se si tratta di un nostro paziente dovremmo averle fatte, ma spesso i pazienti arrivano da qualche altro studio e non conoscere la situazione di partenza è un limite; non serve necessariamente quella del carico ma va benissimo anche una radiografia presa dopo uno o due anni, quando il rimodellamento osseo perimplantare si è stabilizzato. A volte c’è la necessità di fare un lembo chirurgico, per avere una chiara percezione dello stato della malattia perimplantare. Fino a quando c’è stabilità c’è speranza, ma se il danno perimplantare è enorme bisogna valutare se è il caso di salvare o meno l’impianto.
Come avviene il trattamento?
Bisogna prima di tutto fermare la progressione della malattia. L’obiettivo è di mantenere l’impianto in funzione e avere dei tessuti perimplantari sani, anche se idealmente vorremmo fare ancora di più: rigenerare e recuperare ciò che è stato perso.
Vorrei però ricordare che qui stiamo parlando di infezione cronica e serve non una terapia ma una serie continua di terapie, di cui il monitoraggio è parte integrante.
Ci sono diversi modi per curare un impianto affetto da un’infezione cronica, tenendo presente che lo scopo principale è sempre di ridurre la carica batterica e portarla al di sotto di quella soglia che è distruttiva. Prima di tutto, dobbiamo rimuovere il film batterico meccanicamente, in alcuni casi senza fare chirurgia ma in situazioni più complesse è meglio invece sollevare un lembo. Poi possiamo usare gli antibiotici, locali o sistemici, ma l’antibiotico su un biofilm esistente non ha quasi effetto, ma comincia a diventare interessante quando è stato eliminato il biofilm: in questo caso contribuisce all’uccisione dei batteri che stanno cercando di ripopolare la zona o a distruggere quei pochi rimasti. Ci sono poi gli antimicrobici, la clorexidina, la terapia fotodinamica e così via.
Dobbiamo poi correggere il difetto osseo e questo lo si può fare con la chirurgia rigenerativa oppure con la chirurgia resettiva: o cerchiamo di far ricrescere tutto oppure abbassiamo tutto.
Alcuni intervengono modificando la superficie implantare, cercando di rendere più liscia la parte di un impianto ruvido che resta scoperta, ma bisogna fare attenzione nella rimozione delle spire: c’è qualcuno che rimuove troppo e arriva a perforare l’impianto e in quel caso bisogna toglierlo.
QUANTO CONTANO LE SUPERFICI IMPLANTARI?
Riguardo all’influenza del tipo di superficie implantare sulla probabilità di contrarre perimplantite, c’è tuttora un dibattito aperto tra gli esperti.
Marco Esposito riferisce che “in una delle pochissime evidenze validate da una revisione sistematica della Cochrane Collaboration, sono stati paragonati impianti con superficie molto ruvida con impianti a superficie macchinata e a tre anni c’è stata una differenza significativa: gli impianti a superficie ruvida avevano una probabilità maggiore del 20% di avere perimplantite”.
C’è chi però sposta l’attenzione dalla superficie al tipo di connessione. Le superfici ruvide hanno infatti evidenziato molti vantaggi nel corso degli anni e, invece di rinunciarvi, molti ritengono che sia più opportuno rimuovere altre cause.
Al congresso dello scorso ottobre ad Assago, si sono confrontati sul tema tutti i partecipanti al focus sulla perimplantite: oltre a Marco Esposito, Adriano Piattelli che ha presieduto i lavori, Mario Carbone, Filippo Graziani, Tonino Traini e Andrea Mombelli. Proprio quest’ultimo, già in un precedente intervento su Italian Dental Journal, aveva dichiarato che, in una superficie macchinata, per definizione l’impianto non è mai liscio, perché subisce delle lavorazioni meccaniche: “può solo ridurre la formazione di un habitat favorevole allo sviluppo di alcuni ceppi batterici, ma non può risolvere il problema derivante da connessioni instabili, in grado di produrre infiammazioni e alterazioni nell’apparato connettivale che possono evolvere in perimplantite”.
In quest’ottica quindi l’obiettivo è quello di eliminare o ridurre le cause all’origine, piuttosto che rinunciare ai vantaggi che le superfici irruvidite hanno dimostrato di offrire in tanti anni di consolidata pratica clinica. D’altra parte, come fa notare Vetzy Perez Palma, amministratore unico di Bone System, l’azienda italiana che ha offerto un supporto non condizionante al congresso, si è evidenziato che Çun sistema “chiuso” di connessione implantare è l’unico in grado di eliminare la formazione di un serbatoio batterico all’interno delle fixture implantari, prevenendo quindi l’insorgere di una perimplantite dovuta a questa presenza. Bone System – ha continuato – ne ha tratto le conseguenze tecnologiche, progettando una connessione inattaccabile dai batteri”.
Renato Torlaschi
Giornalista Italian Dental Journal