La durata dei restauri e l’affidabilità dei materiali dentali sono una delle questioni più importanti non solo per il paziente che chiede garanzie, ma anche per l’odontoiatra, che sarebbe ben lieto di offrirle e, dove presente, anche per il cosiddetto terzo pagante, che ne sarebbe ancora più felice. All’inevitabile domanda «quanto potrà durare?», il dentista può rispondere fondatamente «anni», ma sul numero può soltanto approssimare, attingendo al suo archivio clinico personale. Mai come in questo caso sarebbe utile disporre di informazioni attendibili che possono derivare solo da studi di lunga durata e bene impostati; il che, come questo giornale ha più volte messo in evidenza, in odontoiatria non è così frequente.
Difficoltà di base
Certo, il percorso è lunghissimo: dalle prove di laboratorio dei produttori agli studi sull’animale, da questi alle prime applicazioni sull’uomo e quindi agli studi clinici controllati e, infine, alle revisioni sistematiche delle ricerche pubblicate si giocano almeno tre Mondiali di calcio. Ma il problema è che, a differenza dei farmaci, i materiali da restauro vengono immessi in commercio con molta più facilità e molte garanzie in meno, lasciando a pazienti e dentisti lo scomodo (e gratuito) compito di quella che per i farmaci è la fase IV o post-marketing; in pratica cavie più o meno inconsapevoli.
Chi sogna una ricerca ideale, dove vengono seguiti per almeno due decenni molti restauri realizzati con procedure sempre uguali su pazienti altrettanto standardizzati, deve accontentarsi di conclusioni e cifre sparse qua e là, di ricerche disomogenee, di prove in costante verifica. Il che, da un certo punto di vista, è anche e giustamente inevitabile: il materiale da restauro, che andrebbe usato secondo le indicazioni del produttore, viene applicato da una moltitudine di dentisti con un grado diverso di esperienza e capacità su una moltitudine di pazienti con caratteristiche diverse, a cominciare dalle abitudini alimentari e dal grado di igiene. Analogamente,i risultati dei grandi studi clinici randomizzati sull’efficacia di un farmaco in pazienti selezionati in modo da essere il più omogenei possibile non possono essere automaticamente trasferiti ai pazienti degli ambulatori, cioè alla cosiddetta real life medicine.
La letteratura
La letteratura non è certo avara di articoli sul comportamento e sulla durata dei materiali da restauro ma sono pochi gli studi di lunga durata che confrontino i materiali disponibili; lo stesso vale per le revisioni bibliografiche, che non sono tutte egualmente affidabili (1): ad esempio mancano criteri condivisi sulla definizione di “fallimento” del restauro e c’è una grandedifferenza tra gli studi disponibili in letteratura: si va da quello impostato con criteri molto rigidi, solitamente eseguito in ambito universitario ma di breve durata, a quello meno rigido ma con un campione più ampio eseguito in ambito non universitario.
Grande variabilità anche nella descrizione del metodo usato nella ricerca: alcuni studi non descrivono se è stata usata la diga o l’anestesia, altri non distinguono il campione per età, sesso, igiene orale; molti non considerano la possibile presenza di buxismo.
Va poi sottolineato il divario incolmabile tra la durata degli studi clinici e l’evoluzione dei materiali, specialmente quelli per le tecniche adesive, ragione per cui un articolo rischia seriamente di essere pubblicato quando ormai il materiale di cui si occupa non è più nei cataloghi. È comprensibile che questo possa scoraggiare sia i ricercatori sia gli editori.
Per esempio, una ricerca durata 12 anni su un adesivo dentinale (OptiBond Dual Cure) fu pubblicata nel 2009, quando oramai non era più in commercio (2). Alla base di questo rischio c’è la continua evoluzione dei materiali: se l’amalgama è rimasto sostanzialmente lo stesso dall’introduzione del tipo non gamma 2 (cioè dagli anni ‘80), per i materiali adesivi non si può certo dire lo stesso.
Una miniera di dati
Esiste, però, un’enorme banca dati non sfruttata che potrebbe fornire informazioni preziose; si tratta delle cartelle cliniche che potrebbero essere analizzate con le moderne tecniche di data mining, le tecniche di tipo matematico e statistico che permettono di estrarre informazioni utili e direttamente applicabili da grandi insiemi di dati mediante sistemi automatici o parzialmente automatici. Così hanno fatto tre ricercatori dell’università finlandese di Oulu (3).
In questo lavoro sono state analizzate le cartelle di 1.906 pazienti, appartenenti a tre diverse coorti di età, per un totale di quasi 20mila restauri con lo scopo di capire se il data mining sia affidabile per valutare la durata dei materiali da restauro e se vi siano differenze dipendenti dalla sede anatomica. Da quella mole di dati sono state ricavate le curve di Kaplan-Meier, che rappresentano la durata di ogni materiale.
Nel complesso, amalgama e compositi arrivano alla pari ma, scomponendo i dati per sede anatomica, emerge la maggiore solidità del primo: l’amalgama, infatti, dura di più sulle superfici occlusali rispetto a compositi e cementi vetro-ionomeri. Nella coorte più vecchia (nati nei primi anni ‘60) l’amalgama dura in media più di 16 anni sulle superfici occlusali contro i 7 dei compositi e i 5 dei vetro-ionomeri. Un dato di interesse storico è la scarsa longevità dei cementi al silicato (meno di 5 anni) che infatti scomparvero dai cataloghi a partire dalla fine degli anni ‘70.
Da una ricerca simile, svolta sempre in Finlandia (4), arriva un particolare curioso che farà piacere a chi storce il naso davanti ai grandi dental centers: la qualità delle cure, infatti, risulta migliore nei piccoli studi dove il paziente viene seguito dallo stesso professionista rispetto ai grandi centri, dove gli operatori cambiano spesso. Questa osservazione è indirettamente confermata da una ricerca inglese secondo la quale la durata dei restauri è minore nei pazienti che cambiano dentista.
Altri esempi di quanto possa rivelarsi utile il data mining provengono da due ricerche svolte nel Regno Unito e negli Usa. Quella americana (5) ha setacciato gli archivi del periodo 1993-2000 confermando la supremazia dell’amalgama sui compositi nei denti posteriori: la durata di questi è inferiore del 16% a parità di età del paziente, età del dentista e sede anatomica. Inoltre è emersa la conferma che la durata di un restauro diminuisce significativamente nei pazienti che cambiano dentista; cosa che gli autori spiegano come conseguenza delle divergenze diagnostiche tra un operatore e l’altro.
La ricerca svolta nel Regno Unito (6) ha preso in esame più di 500mila restauri svolti su oltre 80mila pazienti (46% uomini e 54% donne) in un arco temporale di 11 anni. Grazie a questo è stato possibile ottenere molte informazioni sulla durata dei restauri e sui fattori che la influenzano. Il bilancio? Molte conferme e qualche sorpresa, come la minore durata dei restauri eseguiti dai professionisti ultracinquantenni rispetto ai colleghi che hanno meno di trent’anni: la differenza è del 5% circa a 5 e a 10 anni.
1. Chadwick B, Treasure E, Dummer P, Dunstan F, Gilmour A, Jones R, Phillips C, Stevens J, Rees J, Richmond S. Challenges with studies investigating longevity of dental restorations–a critique of a systematic review. J Dent. 2001 Mar;29(3):155-61.
2. Wilder AD Jr, Swift EJ Jr, Heymann HO, Ritter AV, Sturdevant JR, Bayne SC. A 12-year clinical evaluation of a three-step dentin adhesive in noncarious cervical lesions. J Am Dent Assoc. 2009 May;140(5):526-35.
3. Käkilehto T, Salo S, Larmas M. Data mining of clinical oral health documents for analysis of the longevity of different restorative materials in Finland. Int J Med Inform. 2009 Dec;78(12):e68-74.
4. Suni J, Vähänikkilä H, Päkkilä J, Tjäderhane L, Larmas M. Review of 36,537 patient records for tooth health and longevity of dental restorations. Caries Res. 2013;47(4):309-17.
5. Bogacki RE, Hunt RJ, del Aguila M, Smith WR. Survival analysis of posterior restorations using an insurance claims database. Oper Dent. 2002 Sep-Oct;27(5):488-92.
6. Burke FJ, Lucarotti PS. How long do direct restorations placed within the general dental services in England and Wales survive? Br Dent J. 2009 Jan 10;206(1):E2; discussion 26-7.
LA PROPOSTA: UN REGISTRO PER MATERIALI DENTARI E IMPIANTI
Attualmente pazienti e dentisti (che pure diventano pazienti a loro volta, prima o poi) si devono accollare l’onere non retribuito e il rischio non richiesto della sperimentazione post-marketing dei materiali restaurativi, a esclusivo vantaggio dei produttori.
Premesso che il produttore deve naturalmente cercare di chiudere il bilancio in attivo e non deve lavorare per i burocrati, non sarebbe un male se per i materiali e le protesi dentali ci fosse un registro analogo a quello della farmacovigilanza dove far confluire non solo le segnalazioni di reazioni avverse ma anche quelle dei comuni fallimenti di tipo meccanico, finanziandolo in prevalenza col contributo dei produttori e in minor parte con il contributo delle autorità di controllo sanitario (magari non nazionali ma europee).
In prima ipotesi, l’odontoiatra potrebbe riportare sulla cartella il numero di lotto del prodotto usato e, in caso di fallimento o reazione avversa, lo segnalerebbe al sistema. Periodicamente, verrebbero resi i noti i risultati classificandoli per tipo di materiale, restauro, caratteristiche del paziente e del dentista. Questo permetterebbe anche di collegare la ricerca accademica basata sui trials modernamente strutturati con la cosiddetta ricerca “practice based”, fatta dai professionisti nel loro lavoro quotidiano, generando così evidenze cliniche propriamente dette.
Certo, questo significherebbe tempo e lavoro extraclinico per gli odontoiatri ma sarebbe tutta fatica ben ricompensata a lungo termine, alla quale si potrebbe dare un riconoscimento in termini di crediti Ecm, di benefici fiscali oppure (e sarebbe pure una meritata ricompensa) uno sconto sull’acquisto dei materiali.
L’esempio degli ortopedici
Un modello ben organizzato, al quale ci si potrebbe ispirare, è il Riap (Registro italiano artroprotesi) gestito dall’Istituto superiore di sanità con lo scopo di controllare l’uso delle protesi articolari (circa 160mila interventi all’anno in Italia) e tutelare la sicurezza dei pazienti. Il Riap è nato nel 2006 sulla base di esperienze italiane e internazionali risalenti agli anni ’70.
Per ogni caso vengono raccolte le informazioni relative al dispositivo impiantato, al paziente e all’intervento tramite la scheda di dimissione ospedaliera; anche il paziente è attivamente coinvolto e deve compilare un questionario standard prima dell’intervento e dopo 6 mesi. Strettamente connessa all’attività del Riap è quella della Banca dati dei dispositivi medici attiva dal 2007 presso il ministero della Salute. Tutto questo permette di avere a disposizione un’enorme mole di informazioni cliniche dalle quali possono ricavarsi preziose indicazioni per migliorare la qualità delle cure e dei prodotti. Nel campo dell’implantologia, per esempio, una banca così organizzata potrebbe chiarire se gli impianti ruvidi sono ancora così consigliabili oppure no (c’è grande dibattito sull’argomento) e se le centinaia di varietà di impianti in commercio sono tutti ugualmente affidabili.
Nel 2004 l’Iss pubblicò una revisione sulle protesi d’anca in Italia: ce n’erano in commercio quasi 200, ma per la maggior parte di esse non vi erano prove scientifiche di buona qualità metodologica che ne giustificassero l’utilizzo. In odontoiatria la pletora degli impianti è un fenomeno noto da tempo e sarebbe ora di incominciare a copiare il Riap.

Dott. Cosma Capobianco
Ambulatorio di odontoiatria, Azienda Ospedaliera Sant’Anna, Como
La storia dei test sui materiali dentali
Fino alla fine degli anni ‘70 i test sui materiali dentali erano svolti quasi esclusivamente in laboratorio; in seguito si cominciò a immetterli sul mercato dopo una breve sperimentazione clinica e, finché si trattava di amalgama, la differenza con la clinica non era certo abissale. Quando, invece, arrivarono i primi compositi negli anni ’70, allora gli autori degli articoli cominciarono a scrivere che i dati (e le promesse) dei laboratori di produzione non erano precisamente sovrapponibili a quelli della clinica. Nel 1967 la Fdi pubblicò i requisiti minimi per condurre una ricerca clinica controllata sulle malattie orali, tra cui numerosità del campione, selezione casuale dei soggetti e altri egualmente adatti a una ricerca sui materiali dentali. Nel 1971 il Council on Dental Materials dell’American Dental Association (Ada) riconobbe l’importanza di metodi condivisi per la valutazione clinica dei materiali, pubblicando le sue raccomandazioni alle quali seguirono quelle Fdi nel 1977 e del United States Public Health Services System del 1980, che sono ancora sostanzialmente seguite al giorno d’oggi. Il restauro viene classificato come ideale (Alfa), accettabile (Bravo), non soddisfacente (Charlie) o da sostituire subito (Delta).
Nel 1981 uscirono le prime direttive Ada alle quali dovevano attenersi i produttori per apporre il famoso bollino “approved” sui loro materiali. La durata minima degli studi clinici, inizialmente prevista in 5 anni, venne poi ridotta a 4, mentre il grado di usura passò da un massimo di 150 micron in 3 anni agli attuali 100 micron in 4 anni.
Cosma Capobianco
Odontoiatra