Un libro per celebrare mezzo secolo di vita del North Kinangop Catholic Hospital, a nord di Nairobi in Kenya, riporta in immagini e racconti il vissuto di alcuni dei 200 operatori sanitari volontari che si sono avvicendati nel quasi sperduto ospedale africano. Di più: nei racconti dei medici emerge chiaramente la sensazione dell’essersi riappropriati dei più veri contenuti della professione medica. Che non può che essere il soccorso e la cura dei malati, lontano da adempimenti burocratici e timori di denunce, in una rinnovata alleanza tra curante e paziente che, forse ce ne siamo quasi dimenticati, è uno dei presupposti del successo di ogni terapia.
Il “passaggio” citato nel titolo del libro «provoca riscoperte emotive e professionali profonde, fino al punto che nulla sarà più come prima – scrive Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei medici e odontoiatri di Torino –. Non si tratta di “mal d’Africa”, nell’accezione più comune del termine, ma di “mali d’Africa” che si condividono in toto, facendoseli propri».
Naturalmente il ricavato delle vendite del libro, “Passaggio a Nord Kinangop”, edito da Carlo Delfino editore, verrà interamente devoluto all’ospedale, che fornisce un servizio essenziale per la popolazione locale di circa 350mila abitanti. Offre servizi di ottimo livello, anche grazie ai medici volontari italiani e alle apparecchiature inviate dall’Italia. Non riceve contributi nè dalla diocesi locale, nè dallo Stato. Dal punto di vista economico la gestione ordinaria è quasi esclusivamente finanziata dal contributo dei pazienti, continuamente rivisto in modo da poter assorbire i costi reali, senza alcun margine di profitto.
Tra i racconti di episodi tristi, commoventi, allegri o tragici di professione vissuta, abbiamo scelto lo stralcio del capitolo “Dal dentista con la sorella in spalla”.
[…] E allora mi viene in mente lei. Con quello sguardo carico di vita, nonostante tutto. Era una disabile e la prima volta la vidi sulle spalle di una donna più giovane che seppi poi esser la sorella. Io ero nel viale, dietro la porta d’ingresso dell’Ospedale. Arrivarono a piedi. La donna “someggiata” era più vecchia e si vedeva che stava male. Provava un dolore tremendo ai denti. Le scortai subito dal dentista, non prima di averla adagiata su una sedia a rotelle. La più giovane mi disse che si era fatta tre km a piedi.
Il dentista riuscì a curarla, ma non senza difficoltà. La paziente si lamentava e – mi disse poi la sorella – si dolse del fatto di essere stata portata in un luogo dove le avevano fatto male. Non riuscii a non intenerirmi, perché mi ricordai di quand’ero bambino e il dentista mi aveva estratto un dente. Mi ci aveva accompagnato la tata dalla quale mi sentii un po’ tradito. La stessa sensazione che provava quella donna verso la sorella più giovane e misericordiosa.
Le accompagnai a casa loro a bordo di un mezzo dell’Ospedale. Casa, in verità, è un termine molto ambizioso. La disabile viveva dentro una capanna di fango, ai limiti della radura, con il tetto di lamiera. Era il suo spartiacque tra lei e il mondo, in condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza. Si nutriva irregolarmente, a giorni alterni e le condizioni igieniche erano inesistenti. Rimasi colpito da un mondo simile, ancora primitivo.
[…] Facemmo una colletta tra i volontari e riuscimmo ad acquistare un campo per costruirvi una modesta casa in legno, dove vennero ad abitare la sorella più giovane col marito ed i figli, prendendosi in cura la disabile. Con quella casetta però, avevo ottenuto una vittoria memorabile, sconfiggendo il senso di abbandono che genera la povertà. […] A volte i dadi che vengono gettati sul tavolo delle nostre vite si sparigliano. A volte vinci oppure perdi. Ma quando mi riferiscono notizie positive sulla nostra disabile – oggi curata e assistita con regolarità – penso sempre che almeno questa mano, per una volta, me la sono giocata bene.