
Stefano Daniele, tutor al corso di laurea specialistica in odontoiatria e protesi dentaria, Università degli studi di Milano
Nei primi anni 2000 è stata introdotta e diffusa in odontoiatria una procedura che prevedeva l’impiego di un composito flowable sul fondo della cavità dopo le procedure adesive ai tessuti dentali e prima della stratificazione della resina composita da ricostruzione. Le cavità di classe I, II e V erano indicate per accogliere questa procedura e il motivo è da ricercare nel fatto che queste cavità si prestano in modo particolare a manifestare forze di stress di contrazione nell’interfaccia cavità-restauro (cavità con alto C-factor).
Caratteristiche dei compositi flowable
Il manifestarsi delle forze di stress di contrazione nell’interfaccia del restauro può portare alla perdita dell’intimo contatto tra quest’ultimo e le pareti cavitarie con conseguentemente il manifestarsi di carie secondaria, sensibilità post-operatoria e nei casi estremi il distacco.
I compositi flowable rispetto ai convenzionali, impiegati per le procedure ricostruttive vere e proprie, si presentano più fluidi e tale caratteristica è dovuta alla minor presenza di riempitivo inorganico disperso nella matrice e una maggior presenza di monomeri, costituenti la matrice appunto, a minor viscosità. La particolare composizione chimica dei compositi flowable conferisce a questi materiali resinosi un basso modulo elastico, che significa apparire meno rigidi e quindi più suscettibili a deformarsi se sottoposti a una forza o carico.
In pratica lo strato di composito flowable posto sul fondo della cavità (e anche a foderare le altre pareti della cavità) ha la tendenza a deformarsi quando la resina composita da ricostruzione al di sopra polimerizza e quindi si contrae. Lo strato di flow agisce quindi come un cuscinetto o ammortizzatore capace di assorbire le forze di contrazione del composito da ricostruzione ed evitare che queste si trasferiscano all’interfaccia sotto forma di forze da stress da polimerizzazione. Il concetto è definito e spiegato da Van Meerbeek come “elstic bonding concept”.
Un possibile errore diagnostico
Questa procedura, che ha indubbiamente dei vantaggi nel ridurre lo stress da contrazione che si genera durante le procedure di stratificazione di una resina composita nella cavità, espone tuttavia a un rischio di errata valutazione se il restauro in questione viene analizzato attraverso un radiogramma endorale.
Il motivo di questo equivoco risiede proprio nella composizione dei compositi flowable che, essendo poco caricati di riempitivo inorganico, appaiono tendenzialmente radiotrasparenti in radiografia, in particolar modo quelli con all’interno una bassa percentuale di metalli pesanti. Il problema risiede nella composizione chimica della resina composita flowable, che ne influenza il suo aspetto radiografico nel senso che la bassa percentuale in volume di riempitivo di questi compositi e, spesso, la bassa presenza di particelle metalliche, la fanno apparire come radiotrasparente all’indagine radiografica.

Linea radiotrasparente di composito flowable che contorna il restauro in composito di 1.5 e che simula nel radiogramma un’area d’infiltrazione del restauro stesso
Quale radiopacità per i compositi?
I compositi impiegati nel restauro adesivo dovrebbero invece possedere una radiopacità simile a quella dello smalto e superiore a quella della dentina, in modo tale da poterli intercettare in radiografia e valutare la loro integrità a livello dei margini periferici.
Lo suggerisce anche la specifica numero 27 dell’Ada (American Dental Association), che afferma che la radiopacità di un composito da ricostruzione dovrebbe essere uguale o superiore a quella di una lastra di alluminio di spessore definito in millimetri (mm / mmAl) e mai inferiore a una lastra di 0,5 mm di alluminio.
La radiopacità della dentina è circa equivalente a quella di una lastra di alluminio di 0,5 mm di spessore, mentre la radiopacità dello smalto è due volte superiore a una lastra di alluminio di questo stesso spessore.
I compositi da ricostruzione propriamente detti (quindi tutti tranne i flowable) rispettano questi requisiti, avendo una radiopacità superiore a quella della dentina e circa uguale o leggermente superiore a quella dello smalto, a patto che siano usati in spessori non trascurabili, generalmente superiore ai 2 mm. I compositi flowable invece tendono ad avere, in linea generale, una radiopacità inferiore a quella della dentina e quindi apparire al radiogramma come una linea o banda scura che confina con i tessuti dentinali.
L’esempio concreto
Queste premesse per dire che osservando il radiogramma di una ricostruzione di classe I e II (e quindi con sezioni trasverse visibili al radiogramma) realizzata posizionando un sottofondo di composito flowable, può rilevarsi una sottile banda radiotrasparente tra la cavità e il composito da ricostruzione. Un aspetto radiografico così descritto è del tutto identico a quello che si può osservare in un radiogramma di un restauro infiltrato perifericamente e che ha sviluppato carie secondaria sotto il restauro stesso.
Quindi l’aspetto radiografico di un’otturazione in composito (più radiopaca dei tessuti dentali) sostenuta o circondata da uno strato di composito flowable (più radiotrasparente dei tessuti dentali) è molto simile a quella di una qualsiasi otturazione in composito che ha sviluppato carie secondaria (radiotrasparente) intorno al restauro stesso.
Il rischio risiede nel fatto di non riuscire bene a interpretare la situazione e produrre dei falsi positivi alla diagnosi radiografica, vale a dire scambiare una ricostruzione marginalmente integra con una ricostruzione colpita da carie secondaria e di conseguenza procedere alla sostituzione con il fine di rimuovere il processo carioso neo-formato. In pratica il clinico, ingannato dal radiogramma, interviene sul restauro per poi accorgersi, durante la seduta operativa, che non è presente alcun segno di processo carioso in profondità al restauro.

Diversa radiopacità di restauri in composito su 3.6 e 3.7
Il consiglio operativo
Il problema è, a mio avviso, rilevante e lo diventa ancora di più quando il paziente arriva per la prima volta alla nostra osservazione e quindi non abbiamo uno storico in cartella clinica che può indirizzare sulla procedura ricostruttiva messa in opera nei confronti delle otturazioni che vogliamo indagare con radiografie.
Ci si trova quindi difronte a un problema da risolvere, ovvero: usare i compositi flowable come sottofondo dei restauri in composito in virtù della loro capacità di ridurre la trasmissione delle forze di stress da contrazione nell’interfaccia oppure non usarli per il rischio di produrre falsi postivi di carie secondaria all’analisi del radiogramma?
Sicuramente la procedura che prevede l’impiego di un sottofondo di flowable è efficace e migliora la longevità di un restauro in resina composita di classe I, II e V e quindi, credo, sarebbe un errore rinunciare a questa tecnica.
Il problema dell’eccesiva radiotrasparenza dei compositi flowable può essere risolto in primo luogo mettendo a conoscenza del problema le case produttrici, in modo tale da produrre compositi flowable più radiopachi e meno sensibili ad essere confusi con aree di carie secondaria.
In attesa di questi miglioramenti da parte delle case produttrici si può operare cercando di aumentare lo spessore del sottofondo di composito flowable, in quanto uno spessore aumentato rimane sempre radiotrasparente nel radiogramma ma morfologicamente assai dissimile da quanto produce un processo di carie secondaria nell’interfaccia cavità restauro. In linea generale il consiglio è di usare i compositi flowable come sottofondo di alcune cavità conservative impiegandolo però in spessori aumentati (circa 1,5 – 2,0 mm) ovvero più come base che come liner.
Stefano Daniele
Tutor al corso di laurea specialistica in odontoiatria e protesi dentaria dell’Università degli studi di Milano,
presso l’unità di patologia, medicina e geriatria orale
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