Nella gestione della perimplantite la scelta della procedura non chirurgica, ed eventualmente preparatoria al trattamento chirurgico, mirata a ridurre la carica microbica del biofilm subgengivale è ancora controversa. In alternativa al classico debridement meccanico, attuato con scaler e curette o con ablatore a ultrasuoni, è stato di recente introdotto un sistema di decontaminazione più innovativo basato sulla tecnologia airflow.
La revisione sistematica con metanalisi realizzata da un team composto da implantologi emiratensi e neozelandesi, appartenenti rispettivamente all’Università Mohammed Bin Rashid di Dubai e all’Università di Otago di Dunedin, rappresenta la prima valutazione comparativa evidence-based dei due metodi. La selezione dei lavori, attinti dai principali database sia della letteratura scientifica sia dei trial clinici non ancora pubblicati, ha portato a includere nell’analisi cinque studi randomizzati controllati, per un totale di 174 pazienti e 288 impianti, che sono stati tutti condotti in paesi europei (Italia, Germania, Olanda e Spagna).
Gli interventi messi a confronto prevedevano il debridement meccanico con ablatore piezoelettrico a ultrasuoni con punta rivestita in polietere-etere-chetone (Peek) o ablatore ultrasonico con o senza curette in titanio/carbonio, che è stato adottato nel 53% degli impianti, e la tecnica airflow, con polvere a base di eritritolo a granulometria di 14 μm contente clorexidina allo 0,3% o con polvere a base di glicina a granulometria di 25 μm, applicata per 5-7 secondi, che è stata adottata nel restante 47% degli impianti. In entrambi i casi i pazienti sono stati trattati preventivamente con un risciacquo con soluzione di clorexidina allo 0,12% e cetilpiridinio cloruro allo 0,05% oppure di clorexidina allo 0,2% rispettivamente per 30 e per 60 secondi, lo scaling orale completo e l’asportazione dei depositi minerali eventualmente presenti sull’impianto, e dopo l’intervento con l’irrigazione del solco perimplantare con una soluzione di clorexidina allo 0,12%.
Ai controlli effettuati a distanza di uno-tre e di sei mesi non sono state rilevate differenze sostanziali tra i due interventi per la maggior parte degli outcome considerati, sebbene la procedura airflow abbia ottenuto risultati migliori in termini di riduzione della profondità della tasca e del sanguinamento al sondaggio parodontale (statisticamente significativi solo nel secondo caso), di variazione del livello della cresta ossea all’esame radiologico in proiezione periapicale con tecnica parallela e di soddisfazione complessiva da parte dei pazienti.
Viceversa con il trattamento airflow è stata osservata una recessione gengivale di entità superiore, che tuttavia è stata interpretata dagli autori come l’effetto della maggiore riduzione della profondità di tasca e della più rapida risoluzione dei processi infiammatori, comprovata dal riscontro di minore sanguinamento.
Monica Oldani
Giornalista Italian Dental Journal