Il dibattito e le disquisizioni cliniche che ruotano attorno al materiale migliore – in termini qualitativi, di efficienza e sicurezza – per la realizzazione degli impianti dentali trovano quasi quotidianamente nuova linfa grazie alle informazioni che l’evidenza scientifica mette a disposizione. Gli interrogativi si rincorrono da decenni, subendo un sensibile incremento a partire dal fatidico 1965, anno in cui lo svedese Per-Ingvar Brånemark inserì il primo impianto in titanio, il quale negli anni si è confermato essere la soluzione standard per la realizzazione degli impianti stessi (nella sua forma pura o in leghe d’alluminio).
Le ragioni che hanno portato a questa consapevolezza sono da ricercarsi nelle proprietà che il titanio ha dimostrato di possedere, e che è bene ricordare: estrema leggerezza, grande resistenza meccanica, elevato punto di fusione, minimo grado di dilatazione termica, solo per citarne alcune.
Seppure possegga un’elevata resistenza alla corrosione, il metallo in questione è incline a rilasciare ioni in una soluzione elettrolitica, e la ragione di ciò risiede nella formazione spontanea di uno strato ossidato sulla superficie del titanio in seguito al contatto di quest’ultimo con l’aria e i liquidi.
La ricerca in ambito odontoiatrico nel corso del tempo ha contribuito, tuttavia, ad incrinare le inamovibili sicurezze che hanno accompagnato l’exploit del titanio: è stato dimostrato, infatti, che un’elevata presenza di particelle di titanio si può riscontrare in diversi punti dell’organismo (ossa, nodi linfatici, polmoni) di coloro i quali portano impianti realizzati con tale materiale. È presumibile, dunque, ritenere che le particelle del materiale rilasciate nella zona dell’impianto vengano poi trasportate dai macrofagi nelle aree linfonodali e di conseguenza giungano in altri organi. Quali sono le ricadute per la salute di tale accumulo? La ricerca fornisce purtroppo dati spesso contrastanti, in netta opposizione tra loro. A tal proposito è necessario confermare, però, quanto sia in netta crescita lo sviluppo di forme di ipersensibilità, con conseguenti reazioni allergico-infiammatorie al metallo. Ciò ha aperto la strada a tutte le possibili alternative all’impiego del titanio, non solo nei soggetti a rischio.
Nell’ambito dei materiali ceramici, che hanno fatto registrare risultati altalenanti e in numerosi casi davvero poco soddisfacenti, si sta facendo strada un nuovo materiale: il biossido di zirconio stabilizzato con ossido di ittrio (detto zirconia), le cui caratteristiche sono qualitativamente superiori a quelle delle ceramiche attualmente in commercio.
Si tratta di un materiale che mostra buona resistenza alla frattura, biocompatibilità e proprietà biotecnologiche ottime, oltre a un’altissima resa dal punto di vista estetico, con un colore molto simile a quello naturale del dente.
Viene allora da chiedersi: lo zirconio può davvero rappresentare un valido sostituto del titanio nella realizzazione degli impianti? Ha provato a dare una risposta a tale interrogativo un’indagine comparativa che ha preso in esame 17 differenti studi clinici sulla materia, con il coinvolgimento di 1.274 pazienti e 1.675 impianti inseriti. Ma la ricerca odontoiatrica, in questo specifico caso, non ci aiuta a risolvere appieno i dubbi, a causa del numero limitato di studi clinici pubblicati, i quali presentano, altresì, periodi di osservazione limitati (fino a 5 anni) e pertanto non indicativi in termini di sopravvivenza nel lungo termine dell’impianto. Con criteri di valutazione e follow-up anche molto dissimili, gli studi presi in considerazione dall’indagine hanno presentato le seguenti percentuali di sopravvivenza dell’impianto in zirconia: secondo Mellinghoff il tasso di sopravvivenza è stato del 93% dopo 12 mesi; Lambrich e Iglhaut parlano del 91,3% dopo 45 mesi; Borgonovo e colleghi riportano un dato pari al 96,16% dopo 24 mesi.
Nonostante le limitazioni descritte, si può affermare con ragionevole certezza che in base alle evidenze disponibili i tassi di successo e di sopravvivenza degli impianti in zirconia sono inferiori rispetto a quelli in titanio. Proprio per il fatto che gli studi a cui si fa riferimento mostrano pesanti carenze in termini di completezza, i ricercatori coinvolti nell’indagine in questione auspicano che vengano messi in piedi con urgenza studi clinici più dettagliati e approfonditi che consentano una valutazione esaustiva in grado di attestare o meno l’idoneità dello zirconio come valido sostituto del titanio nella realizzazione dei moderni impianti osteointegrati.