Cartella clinica ben compilata e consenso informato scritto sono considerati dei documenti chiave in ambito medico legale. La conferma arriva dalle sentenze: come quella relativa alla mancata comunicazione scritta delle istruzioni di igiene orale
Una recente sentenza in fatto di igiene orale ha scatenato una serie di reazioni tanto indignate quanto inesorabilmente improduttive. La sequela di verdetti contra medicum dura ormai da più di un ventennio nonostante le dichiarazioni di Fnomceo, sindacati ecc. In un modo o nell’altro, infatti, la responsabilità, per lo meno nel giudizio civile, viene comunque addossata al camice bianco.
La vicenda clinica non è nota nei dettagli, ma nella sentenza (nr. 69 del 13/01/2018 Corte d’Appello – L’Aquila) si legge che la paziente ha ottenuto un risarcimento di 9.062,24 euro «per cure successive e per l’impianto di una nuova protesi dentaria» dato che, in base al parere del consulente tecnico del giudice (Ctu), l’insuccesso era «causalmente riconducibile al difetto di informazione da parte del dentista in ordine alla necessità di un’accurata igiene orale». Il Ctu ha riconosciuto la correttezza delle cure eseguite (estrazioni, overdenture), ma ha individuato una responsabilità omissiva del professionista per non avere prescritto «l’osservazione scrupolosa delle corrette misure di igiene orale», né nel consenso informato, né nella documentazione clinica, cosa «tanto più necessaria a fronte della riconosciuta scarsa propensione della paziente alla cura dell’apparato masticatorio».
Per questo anche i giudici di appello hanno confermato la prima sentenza, dato che «era onere del sanitario provare di aver fornito alla paziente tutte le informazioni necessarie per assicurare una corretta igiene orale, non limitata all’ordinaria pulizia con spazzolino e filo interdentale (che non necessita di particolari spiegazioni), ma estesa (come ricordato dallo stesso odontoiatra) all’utilizzo di ulteriori presidi meccanici (spazzolino elettrico, idropulsore orale) e chimici (collutori e gel antibiotici)».
Quindi, se per i giudici il filo interdentale è di uso ordinario, si deve supporre che dispositivi automatici, gel e collutori siano extra-ordinari, nonostante per molti italiani il filo continui ad essere un oggetto, se non misterioso, quanto meno fastidioso mentre collutori, idropulsori e spazzolini elettrici sono molto più utilizzati.
Nulla ha potuto il consulente di parte del dentista scrivendo nella sua relazione che «l’igiene orale rientra nei percorsi verbali che normalmente avvengono in uno studio e non vengono mai riportate sul diario».
Rimane, comunque, indelebile l’impressione di una lex amministrata con poca lux: da una parte il paziente è insindacabilmente arbitro delle sue scelte mediante il consenso informato, dall’altro lo si considera mentalmente meno dotato e bisognoso di informazioni scritte su cose che dovrebbero rientrare nelle conoscenze ordinarie.
Ben diverso il caso di una sentenza del 2015 emessa dal tribunale di Trento, che ha dato parzialmente ragione al paziente che, nel corso di un trattamento ortodontico, aveva subito numerose e gravi lesioni cariose a causa della scarsa igiene. L’odontoiatra, non avendo rimosso tempestivamente gli apparecchi fissi, ha dovuto risarcire i danni patrimoniali e biologici, sia pure ridotti proporzionalmente a causa del concorso di colpa addebitato al paziente.
Meglio scrivere tutto
Non è credibile che un odontoiatra esegua bene le cure e non istruisca il paziente, ma continua a valere l’eguaglianza non scritto = non fatto. Paradossalmente, ma non per gli uomini di legge, il dentista sarebbe innocente se avesse superficialmente dato tali prescrizioni senza realmente istruire la paziente e scrivendo nella cartella «fornite istruzioni su igiene della protesi e igiene orale quotidiana con idropulsore, gel A, collutorio B oltre spazzolino e filo. Controlli mensili s.c.».
Resta la consolazione che è stato negato il risarcimento del danno biologico del 4% in quanto inesistente, come evidenziato dal Ctu. E ancora una volta ci si domanda perché qualcuno (l’ordine, il giudice, il fato) non sanzioni il sanitario che firma richieste palesemente infondate bestemmiando Ippocrate, illudendo il paziente e intasando i tribunali.
Quindi, meglio non dare nulla per scontato e scrivere tutto, anche a costo di scadere nella banalità o nello humour nero. Qualche esempio? Nel foglio illustrativo di un cerotto medicato a base di ketoprofene si legge «non masticare o ingoiare il cerotto», e nel referto di pronto soccorso di un paziente morto poche ore dopo «anamnesi impossibilitata dallo stato del paziente intubato».
Cartella clinica è indispensabile
Sul tema della incompletezza o assenza della cartella clinica i giudici, in particolare quelli di Cassazione, non hanno mai fatto sconti, come dimostra la recente sentenza nr 7250 del 23/03/2018 riguardante un trattamento ortodontico presso un’azienda sanitaria pubblica, in cui la cartella clinica era misteriosamente scomparsa. E in passato altre sentenze, di cui riportiamo un estratto, ribadiscono il concetto.
Cassazione nr. 6209 del 31/03/2016: «Nella incompletezza della cartella clinica, che è obbligo del sanitario tenere invece in modo adeguato, rinviene proprio […] il presupposto perché scatti la prova presuntiva del nesso causale a sfavore del medico […] poiché l’imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria».
Cassazione nr. 12218 del 12/06/2015: «L’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente».
Cassazione nr. 12273 del 05/07/2004 «Il medico ha l’obbligo di controllare la completezza e l’esattezza del contenuto della cartella, la cui violazione configura difetto di diligenza […] ed inesatto adempimento della corrispondente prestazione medica».
Cassazione nr. 11316 del 21/07/2003: «La difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso […] ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data».
Cosma Capobianco
Odontoiatra